“Qui non ruba niente nessuno: dove vuoi che vada uno che ruba qualcosa?”
Quello che affitta gli scooter mi dice una cosa che penso ogni volta che vengo in un’isola: che sono i luoghi più sicuri del mondo. Tutti si conoscono e quindi il controllo sociale è più efficace. Inoltre non c’è modo di scappare da un’isola con la refurtiva, o almeno con quella più voluminosa tipo un’auto o una moto. Un gioiello forse, quello sì, ma qualcosa con una targa no, non la puoi rubare.
C’è un certo fascino in questo sistema sociale, almeno dal punto di vista della sicurezza. E poi, escluse le isole più grandi, tutti conoscono tutti. Che può essere un incubo o anche una serenità, a seconda di come la si intende. Da provinciale ne capisco i potenziali (soprattutto quelli più deleteri) ma ne riconosco anche i vantaggi: il controllo sociale, che ai livelli più semplici si traduce in una forma di conoscenza e riconoscimento e niente altro, ha indubbi vantaggi perché può tradursi in una specie di solidarietà implicita. È una struttura sociale particolare, almeno vista o immaginata senza viverci, senza sapere cosa significa sapere tutto o quasi degli altri isolani, e che loro sappiano altrettanto di te.
Bello, ma non so se ci vivrei. O almeno lo penso ogni volta che penso che vivere in un’isola deve essere un’esperienza. Non so se positiva o negativa, ma di certo è un’esperienza.
Poi penso che pensare alla sicurezza personale che un’isola ti garantisce per le sue caratteristiche morfologiche e sociali è quasi meschino, come se tutto si riducesse a quello, come se vivessimo in un’ossessione dalla quale non riusciamo a fuggire neanche in vacanza. Ma il pensiero svanisce presto perché queste elucubrazioni sono un’ombra che ti segue dalla terraferma e che viene dissipata non appena l’atmosfera dell’isola ti avvolge. E non c’è niente di reale in un’isola perché l’isola è un miraggio, l’isola è una possibile verità, l’isola è metafisica.
Quando si ha l’esperienza di un’entità geografica nella sua interezza? È rarissimo. La gran parte delle città in cui capita di entrare o di uscire non hanno confini precisi. Una volta c’erano le mura ed eri dentro o fuori perché il limite era ben visibile. Oggi le città appaiono poco alla volta crescendo come frattali dalla campagna per poi poi solidificarsi in qualcosa di anonimo e compatto, alto e denso, sino al centro storico. La città contemporanea non ha margini, si forma man mano che la si penetra. Quando la si lascia per andare altrove – in un’altra città o al mare – scompare poco alla volta.
Un’isola la vedi per intero, si staglia all’orizzonte mentre con il traghetto ti ci approssimi. Ha un inizio e una fine, ha delle mura invisibili sulle quali si infrange il mare.
L’isola è un’esperienza dell’intero, del finito, in una realtà in cui i margini non esistono. L’isola esiste in quella stessa realtà ed è reale. È un oggetto che affiora dal pelo dell’acqua e poco prima è mare e poco dopo è isola. L’isola dovrebbe essere quindi il luogo della definizione, della certezza. Invece posato piede sull’isola si è altrove, in un luogo metafisico dove le regole sono simili alla terraferma ma i legami sociali sono diversi. Non saprei definirlo altrimenti che metafisico eppure se ne ha la percezione solo trovandovicisi. Sull’isola leggo di più, scrivo di più, disegno di più. Non so se sia dovuto a una diversa percezione del tempo, che scorre ovviamente come altrove e ovunque. Forse ha più a che fare con il valore del tempo: è infinito e allora sembra che venga elargito sempre in abbondanza.
Non sono sull’isola per lavoro, non ho appuntamenti né scadenze e certo lo stato mentale sereno contribuisce a dare una diversa importanza al tempo, eppure pare che ve ne sia sempre, e che se manca, l’isola ne abbia sempre un po’ da mettere sul piatto, per far continuare il gioco.
Quindi questo dev’essere il luogo dell’illusione. È metafisico e quindi le regole fisiche non valgono: il tempo si misura ma non contano le misure, semmai conta l’analogo: è come se vi fosse un altro me stesso che fa le cose. Non lo vedo ma le fa, forse altrove, a centinaia di chilometri, sulla terraferma.
Mentre scrivevo queste righe Spotify ha suonato Soiree di Bill Evans che mi ha fatto venire in mente un altro suo album stupendo e sperimentale: Conversations With Myself. Registrato solo in studio nel 1963, al tempo fu molto criticato dai puristi del jazz tanto che Evans si sentì in dovere di introdurlo e difenderlo. Cosa aveva di così oltraggioso? Era l’esito di uno dei primi esperimenti di overdubbing, ossia di sovrapposizione di tre tracce registrate da Evans stesso e interpretate più o meno diversamente e infine montate l’una sulle altre, assemblandole in post-produzione.
Evans si è sentito in dovere di introdurlo con alcune righe in cui si dice conscio del fatto che la sola musica jazz live è considerata pura e accettata ma la sua intuizione geniale fu diversa e non è causale che sia suggerita dallo stesso titolo: Conversazioni con me stesso. O forse avrebbe dovuto dire “Con tre versioni di me stesso in tre diversi momenti”, perché si tratta di tre diversi Evans che dialogano su piani temporali (in tre tempi presenti, al tempo) diversi. Nota a margine: il piano utilizzato nelle registrazioni era lo Steinway CD 318 di Glenn Gould.
Niente è casuale e questa espansione del tempo esperito in un unico momento (tre tempi diversi “ascoltati” nello stesso tempo) mi ha fatto pensare all’amplificazione del tempo dell’isola. Sull’isola il tempo si piega e l’isola decide che passo deve tenere, un po’ come accade a Venezia e al suo fusorario, che notoriamente è unico. A Venezia c’è l’ora di Venezia, che è diversa nella sostanza e nella pasta. Si misura in 60 minuti ma i segmenti che la compongono sono dilatati o contratti a seconda di come decide Venezia.
E Venezia è un’isola.
Ritorno sempre alla mia personale ossessione del tempo: esistono presenze fisiche che lo manipolano, pur essendo esso, assieme alla gravità, l’unica forza a cui il corpo umano non può sfuggire.
Salvo che sull’isola. L’isola preserva, l’isola allontana i fattori deterioranti, l’isola stabilisce un unico rapporto possibile: il tuo con se stessa.
Ilulissat è una piccola cittadina di poco più di 4 migliaia di abitanti. Si trova in Groenlandia, che è un’isola. Più grande dell’isola di cui ho parlato sin qui (che per la cronaca è Procida, ma è qualsiasi isola di piccole dimensioni, nel racconto). La Groenlandia è un’isola immensa, di cui non si vedono i confini, e non ha niente di metafisico, o almeno non nel senso che ho inteso sin qui.
A Ilulissat si trova l’Ilulissat Ice Fjord Center o Museo del Freddo. È un centro di ricerca che conserva i campioni dei carotaggi dei ghiacci perenni che raggiungono 124.000 anni di età. Sono delle capsule del tempo che, nei diversi strati sovrapposti, conservano le tracce di ogni anno che si è susseguito, cioè tutti i 124.000 che alcune carote riescono a contenere. Sono libri che, invece che essere letti pagina dopo pagina, possono essere letti nel loro spessore. Il ghiaccio ha una memoria e quindi conserva il tempo: in alcuni campioni si leggono anni in cui l’inquinamento è stato più violento, come quello di Londra degli anni ‘50 o gli esperimenti nucleari che si sono svolti in diverse parti del globo: il ghiaccio ha registrato molti di questi avvenimenti di portata planetaria.
Quando si estraggono queste carote si può osservare in una forma finita un intervallo molto ampio di tempo: si può leggere la storia qui e ora, dato che accade e si dipana davanti agli occhi di chi la osserva nel momento presente. Queste carote contengono il passato ma nel presente. Sono inoltre oggetti che vivono contemporaneamente in diversi tempi: contengono quelli passati e li mostrano nel presente e confutano la teoria della non esistenza del passato (da cui deriva l’inutilità del pensarvi, non potendolo più modificare). Il passato esiste in forma di pagina ghiacciata, o di strati sovrapposti dell’atmosfera e dell’aria di un tempo. Per questo la Groenlandia dà una forma visibile al tempo che nell’isola metafisica è solo concettuale: in questa è vissuto, nelle carote di ghiaccio è contenuto. Nell’isola metafisica è percepito, nelle carote è osservato perché ha una forma. La Groenlandia è immensa (pur essendo un’isola) ma offre a chi vi abita o al visitatore un’altra percezione: quella del tempo passato e di quello odierno, nello stesso momento. L’isola metafisica schiaccia il passato sul presente e azzera la prospettiva temporale: ogni giorno sull’isola è un nuovo giorno, ogni giorno si rinasce.
Il ghiaccio si è conservato su quella gigantesca isola e quello che trovo più interessante in senso filosofico è che l’isola – in quanto concetto – conserva il tempo. L’isola è un oggetto che può dominare il tempo: lo imprigiona, lo altera, lo dilata o comprime. Sull’isola non c’è forse più tempo ma c’è un tempo diverso. Quando si approda sull’isola si cambia dimensione: tutto è apparentemente uguale ma, a ben vedere, tutto cambia. Il viaggio per mare per raggiungerla è un viaggio reale e simbolico che libera dal pensiero del tempo.
Sull’isola restano le mogli dei naviganti e questi tornano cambiati dal lungo viaggio, a volte irriconoscibili. Vi sono innumerevoli racconti delle loro mogli che si chiedono se sono gli stessi uomini che hanno sposato, mentre silenziose li osservano e non li riconoscono.
Il mare cambia l’identità e l’isola la conserva perché l’isola mette in salvo dallo scorrere del tempo: chi resta sull’isola non deve evolvere perché già è, chi la lascia e vi ritorna può essersi perso nel frattempo. O aver trovato se stesso, come in Itaca di Kavafis:
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso
già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.