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America, ancora

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America, ancora

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La colonna sonora di Star Wars, già dal primo ascolto, si incide nella mente dell’ascoltatore. Chiunque la sa fischiettare e le sue note evocano precise sensazioni di terrore, paura, dominio, potere, speranza e redenzione.

L’ha scritta John Williams che, prima e dopo quella, ne scrisse altre di memorabili. Quello che si sa di meno è che quella colonna sonora non sarebbe potuta esistere se non fosse esistito Antonín Dvořák e, assieme a lui, altri compositori otto e novecenteschi accomunati da una particolarità: nessuno di loro era nato negli Stati Uniti.

Dvořák arriva a New York nel 1891, su invito della mecenate Jeannette Thurber, che pochi anni prima aveva fondato il National Conservatory of Music of America. Gli ha offerto la direzione dell’istituto che lui ha accettato, anche grazie al compenso promesso. L’anno dopo compone una delle sinfonie più famose della storia: la numero 9, conosciuta anche come “Dal Nuovo Mondo”, un titolo che decide lui stesso preferendolo a “Sinfonia Americana”.

Questa opera di rara potenza e chiarezza espressiva è fondamentale per la sua bellezza e il suo valore musicale ma anche per altri motivi. Se la si ascolta con attenzione vi si scorgono echi di colonne sonore di film che sarebbero venuti anni dopo, e anzi è più giusto dire che sono gli echi della sua Nona a farsi sentire in musiche venute anni dopo.

Come accadde per altri compositori coevi di Dvořák, le loro musiche sono state spesso citate da molti che hanno scritto per i film, in forma di esplicito tributo, non di certo volendosene attribuire l’origine. Oltre alla Nona, John Williams – che abbiamo conosciuto nelle prime righe – ha citato anche i “Pianeti” dell’inglese Gustav Holst (in realtà composti tra il 1914 e il 1916, quindi posteriori alla Nona di Dvořák) nelle musiche di Star Wars, e, come si diceva, ha citato Dvořák nella potenza marziale della Marcia Imperiale. Vi sono infine altri compositori europei – per essere molto poco precisi, e me ne scuso, trattandosi di inglesi, boemi, austriaci, tedeschi – che hanno contribuito a costruire la narrazione americana e a fondarne un certo immaginario collettivo: Schoenberg, Mahler, Smetana e altri. Artisti europei hanno insomma dato una forma all’idea degli Stati Uniti, basti pensare a Gropius, Schindler, Neutra e Mies van de Rohe nell’architettura: in particolare il grattacielo Seagram Building di quest’ultimo a New York (poi ripetuto in maniera ossessiva e con poche variazioni anche a Chicago) ha fondato una certa idea di cosa è un grattacielo e come è fatto.

Non che io voglia dimostrare che gli Stati Uniti sono tali grazie gli europei, perché non è così. Lo sono però anche grazie agli europei. Ed è una constatazione e anzi, ancora una volta, un tributo al loro spirito.

ll Seagram Building di Mies van de Rohe è sulla destra e non si vede, troppo facile essere letterali e mostrarlo. Comunque questa è Manhattan, vicino a quel grattacielo. Insomma, si è capito credo.

ll Seagram Building di Mies van de Rohe è sulla destra e non si vede, troppo facile essere letterali e mostrarlo. Comunque questa è Manhattan, vicino a quel grattacielo. Insomma, si è capito credo.

Questa invece non è la facciata del Seagram però la ricorda molto, e serve a dimostrare la tesi che Mies van de Rohe ha fondato l’idea del grattacielo

Questa invece non è la facciata del Seagram però la ricorda molto, e serve a dimostrare la tesi che Mies van de Rohe ha fondato l’idea del grattacielo

Per tornare alla Nona, la sua matrice è diversa dalle precedenti di Dvořák: è di certo più libera e meno classica. Lui stesso raccontò di averla composta tentando di incorporarvi la nuova grammatica musicale che stava conoscendo in quegli anni, ossia quella americana, dei canti dei nativi o degli spiritual. Non li cita ma, per sua stessa ammissione, li traduce e li filtra attraverso la sua sensibilità, dando loro una nuova forma. È come se se ne cogliesse il riverbero senza poterli identificare con precisione: sono presenti nello spirito ma non nella sostanza.

Trovo il tema della costruzione di una narrazione molto affascinante e, credo, uno dei più elevati e ambiti dagli artisti. Quando riesce, quando la propria opera è talmente potente da poter scrivere delle pagine di un racconto corale, l’impeto dell’espressione artistica individuale acquista un’ampiezza straordinaria: è come se l’artista non desse solo voce a sé stesso ma a un popolo intero. E non parlo di inni nazionali o bandiere: parlo di opere d’arte in cui milioni di persone si riconoscono perché parlano la loro stessa voce.

A questo punto ci si può chiedere se queste opere abbiano valore perché riescono a fare esprimere una particolare voce collettiva o se in realtà abbiano generato quella stessa voce, in cui poi un popolo si è identificato, facendola propria. Probabilmente è una domanda che non ha risposta ma che conduce a un tema altrettanto interessante, ossia quello dell’originalità.

Molte di queste espressioni dello spirito americano possono essere ascritte ai contributi di artisti che americani non erano, ma ve ne sono altrettante nate proprio su quel suolo, basti pensare al blues, al jazz poi e all’hip hop, per parlare solo e ancora della musica.

O, per tornare all’architettura, basti citare Frank Lloyd Wright che sviluppò una grammatica molto personale che non aveva legami con quella europea, che del resto al tempo era anche molto meno conosciuta dato che i libri e le riviste non avevano una circolazione così ampia da favorire ibridazioni. Fino alla Seconda Guerra Mondiale e alla conseguente diaspora di molti artisti e intellettuali europei insomma le due culture si erano fuse e influenzate assai poco. Finché non si sono incontrate, l’opera di Wright aveva un carattere di originalità che la rendeva splendente nel suo essere unica e non somigliante a niente. O apparentemente a niente, dato che lo stesso Wright citava prima i suoi maestri americani (Sullivan su tutti) e poi altri nativi americani, come gli Inca e le loro decorazioni.

La casa/studio di Frank Lloyd Wright a Oak Park, Chicago. Un’opera per cui bisognerebbe scrivere più di un articolo, fondamentale anche solo per il fatto di essere stata campo di sperimentazione dell’architetto americano per molti anni. Lui stesso raccontava che ogni 15 giorni qualche dettaglio cambiava

La casa/studio di Frank Lloyd Wright a Oak Park, Chicago. Un’opera per cui bisognerebbe scrivere più di un articolo, fondamentale anche solo per il fatto di essere stata campo di sperimentazione dell’architetto americano per molti anni. Lui stesso raccontava che ogni 15 giorni qualche dettaglio cambiava

Cosa vogliono dimostrare queste osservazioni? Innanzitutto che non esiste una cultura davvero originale e che, fortunamente, tutte ereditano o si appropriano di elementi generati altrove. E poi che la cultura è la materia per eccellenza capace di farsi plasmare e amalgamare con le sue diverse derivazioni.

Questa è però la cultura del mito fondativo degli Stati Uniti: quella che li ha resi così inediti e nuovi agli occhi degli europei e quella che, con pochi dubbi, ha generato il mito di una nazione capace di creare dal nulla, in un frenetico e incessante processo generativo. Per decenni insomma l’Europa ha guardato oltre oceano e vi ha visto ciò che non riusciva o non poteva più essere: la Terra del Nuovo.

Del resto il Vecchio Continente era sopravvissuto a due guerre ed era impegnato a risollevarsi in mezzo alle macerie. Sempre con il peso della storia e degli errori passati sulle spalle.

L’Europa di fine ‘800 aveva però anche vissuto una fase culturale fra le più esaltanti e rivoluzionarie della storia, anticipata dalla crisi delle scienze e dell’uomo contemporaneo: dall’Umanesimo che lo poneva al centro dell’universo all’indagine sulla liceità dell’occupazione di quel luogo mentale e culturale, sino alla ricerca di una nuova collocazione per lo spirito umano. In genere questi sono i parti di una cultura decadente e quella, in quel preciso momento in Europa, lo era decisamente: decadente, di una decadenza mai vista prima.

Le culture decadenti sono anche le più interessanti, almeno tanto quanto le civiltà in fase di crescita non lo sono o molto poco, almeno dal punto di vista culturale. In genere le nazioni alle prese con una potente e veloce crescita economica sono troppo impegnate a produrre e molto poco a farsi domande sulla direzione in cui stanno andando. Quelle mature, ricche e riflessive, indugiano invece in una speculazione più sfinente ma anche più interessante: non si interessano neanche più della direzione presa ma si chiedono se hanno diritto di puntare a quella, se ha senso, se ne sono in grado. È il pregio e la condanna delle società ricche: che, superate le necessità di darsi un’identità dopo essere nate e raggiunta non solo la ricchezza ma anche l’opulenza, si ripiegano su se stesse e pensano, pensano, pensano.

Chicago

Chicago

In genere il risultato di tutte queste elucubrazioni è molto interessante, e ne è prova il fervore intellettuale della fine del secolo scorso.

Ora: la mia tesi è che gli Stati Uniti siano la nuova patria della decadenza. Non è nemmeno una tesi originale: da chi preconizzava la fine della Storia a chi interpreta la ricerca dell’aumento del PIL e dell’ossessiva e folle espansione economica come evidenti sintomi di una cultura che ha perso la direzione, molti fattori individuano proprio in quel paese l’epicentro della cultura – una delle culture almeno – più interessanti. E, mi ripeto, il fatto di essere decadente non implica che sia meno interessante da studiare poiché contiene elementi autodistruttivi o nichilisti. Anzi, è proprio vero il contrario.

Le culture decadenti sono estremamente vitali, e quella americana lo è e continua a esserlo.

Sarebbe interessante e gentile nei confronti del lettore tirare ora le somme: ho cominciato parlando dei contributi della cultura europea a quella statunitense e dell’originalità della stessa. Non ho però una risposta, o forse riesco a coglierne una sintesi nella mutazione della cultura americana verso il decadentismo. Che, in quanto tale e per quello che già si è detto, è anche un tipo di cultura molto prolifico e originale. Lo è, se si cercano degli esempi, nella letteratura e nelle serie TV e nella capacità di alcune di queste di raccontare il tempi contemporanei con un linguaggio che ha la forza non solo di correre parallelo e trarre ispirazione da quello corrente, ma anzi di anticiparlo, formando quello reale e parlato, quindi. “Le serie tv sono la letteratura della nostra generazione” disse un’amica che cito spesso, perché mi pare che definizione più precisa non ci possa essere. Le serie TV sono letteratura, parafraso ulteriormente.

Questa è in sostanza la forza che la cultura continua ad avere e forse è anche la risposta alle domande e alle tesi esposte in queste righe:

La cultura è quella espressione che, anticipando i linguaggi e i tempi, li crea.

Può sembrare una variazione aulica dell’uovo e della gallina ma la trovo comunque interessante quantomeno per un motivo: si pensa comunemente che la vita di una nazione e la sua cultura (nella manifestazione delle espressioni artistiche) siano due universi che non hanno contatti, mentre gli scambi fra i due sono frequenti e continui: l’arte si ispira alla vita e la vita è plasmata dall’arte.

Non è neanche casuale che la più importante creazione artistica americana degli ultimi decenni – ossia l’hip hop – non sia nata da se stessa ma si basi sulla riarticolazione di frammenti musicali provenienti dalla musica pregressa. Per lo meno alle sue origini.

Non che il blues e il jazz non lo fossero altrettanto ma nell’hip hop la citazione è letterale, nel jazz è rielaborata e filtrata.

La cultura decadente è insomma una cultura di sintesi: non nel senso di brevità ma di composizione di fonti e ispirazioni diverse.

In quanto tale in essa vi si colgono elementi noti, così come in Star Wars si sentono gli echi degli archi della Nona di Dvořák. Che fondò una certa idea di musica Dal Nuovo Mondo, diventato ora Il Mondo Decadente.

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