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Sublime

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Per brevissimi istanti in questi giorni ho avuto una sensazione inedita: di aver più tempo del solito. Non intendo che ne avessi davvero o che fossi riuscito ad avere la meglio sul mostro immaginario ma reale dei tempi contemporanei, e cioè la Produttività Perfetta.

C’è una bella e tremenda immagine che descrive l’anelito tutto umano a fare tutto ciò che si deve fare: l’Inbox Zero. Non avere più messaggi da leggere significa aver smarcato tutto lo smarcabile, significa aver fatto i compiti delle vacanze, significa trovarsi fra le mani il proprio tempo, quello non deciso da agende o da altri, quello che dovremmo alla fine occupare con noi stessi e con un’occupazione che dovrebbe alfine dare un senso al nostro tempo.

Avere in mano il proprio tempo: quella tremenda, sconvolgente e sublime sensazione che scivola inesorabilmente verso la conseguente domanda: cosa ci faccio adesso?

Ho udito il messaggio sonoro: è arrivato un nuovo messaggio. L’Inbox non è più zero, riparte la Giostra della Distrazione Continua.

In questi giorni sono anche in preda a un delirio letterario: non nel senso che mi senta protagonista di un libro o che intenda la mia vita come descritta da pagine scritte da un abile scrittore: sto solo leggendo svariati libri e ne scopro ogni giorno altri che voglio fortissimamente leggere. Man mano che il mio disinteresse per ogni bene materiale che molti altri considerano essenziale si va radicando, altrettanto potente cresce il sentimento che vi siano decine di libri che devo assolutamente leggere.

So benissimo di non averne il tempo né la sufficiente concentrazione ma febbrilmente li accumulo, li comincio, li annoto, li abbandono, li riprendo. Ho scorso la lista dei libri che sto attualmente leggendo e mi ha preso una certa vertigine: ce n’erano alcuni che non ricordavo neanche di aver iniziato, stavano in sala d’attesa e io ero il medico che doveva riceverli. Quando li avevo iniziati? Qual era il loro sintomo, ossia: perché li avevo cominciati? Non li ricordavo nemmeno bene eppure stavano e stanno lì, in tutta la loro libresca presenza. Forse quel tempo che mi sono illusoriamente ritrovato in mano in alcuni dei giorni scorsi avrei potuto impegnarlo leggendone qualcuno e invece li ho perfidamente ignorati disegnando qualcosa invece di. Invece di leggere. Invece di fare.

Ecco l’inganno: che occupare proficuamente il tempo significhi fare. Si consulti la lista delle cose da fare e si faccia, infine!

Invece ho ripensato a La vita contemplativa di Byung-chul Han. Sia per il fatto che l’avevo letto tempo fa, sia perché di lui ne ho finito un altro in questi tempi. Ultimamente non leggo libri: li finisco. Segno che ne ho iniziati troppi ma anche che a volte li finisco (Roberto Calasso diceva che non è mica obbligatorio leggerli tutti, che lui stesso ne sfilava uno dalla sua immensa biblioteca, lo compulsava e poi lo rimetteva al suo posto. I libri non sono fatti solo per esser letti, anche se forse non diceva così ma il senso era questo, o era simile, almeno).

Ho ripensato a quel libro perché mi è balenato un pensiero mentre pensavo a cosa fare del tempo che mi ero ritrovato in tasca: che la cosa da fare fosse non fare proprio niente. Il tempo che avanza può essere sprecato, almeno secondo un’ottica economica.

Non fare niente non perché non si ha voglia di far niente ma perché si vuole esattamente non fare niente. C’è una grande differenza.

La buona pratica di raccogliere passaggi e note dei libri che leggo mi ha fatto isolare queste righe dal sopracitato libro che fedelmente riporto. Condurranno il lettore alla tesi di queste mie parole, cioè al sublime.

“La cosa più importante è il non fare. La parabola benjaminiana sull’inazione si conclude con le parole: ‘In quest’epoca stava discretamente bene. Concludeva poco e non considerava concluso alcunché.’”

Il primo indizio è che la chiave sia l’inazione più che l’azione. La Verità si mostra a chi non fa, a chi non ha programmi, pianificazioni, desiderio o urgenza di occupare territori del futuro (povero illuso individuo questo, poi).

“La noia è la soglia verso grandi imprese.”

Mi stavo forse annoiando mentre pensavo a cosa fare del tempo in più? Non ancora, non del tutto. Il fantasma dell’horror vacui è reale e dominante e spinge sempre a fare qualcosa, qualsiasi cosa, perché qualcosa va fatto, perdio.

Si insinuava però subdolo ma eloquente il sospetto che non fare assolutamente niente fosse una risposta possibile. “Guardare i merli posati sui rami fuori dalla finestra sarà considerabile come non-agire?” mi chiedevo, chiedendomi se farlo, cioè se guardare davvero i rami là fuori. I merli avranno risposte?

La verità è che il non-agire è tutt’altro che un’attività passiva, per quanto qualcosa di attivo possa essere passivo.

Del resto “L’attività e l’agire sono ciechi dinanzi alla verità: sfiorano solo la superficie delle cose” (sempre Byung-chul Han).

La verità è la morte – mi permetto di sintetizzarlo – e l’agire serve solo ad allontanarne il pensiero. Agire è un modo per fuggire.

Ora: non avevo e non ho intenzione di contemplare alcuna idea di morte dicendomi che si tratta della Verità. Non è nei miei attuali programmi e il non-agire non mi riesce nemmeno facilissimo, a questo punto lo si sarà capito. Però le parole di Han potrebbero anche essere una metafora: l’inazione è tutto ciò a cui non si pensa ma che dà sostanza a ciò che si considera esistente, a ciò che è prodotto dall’azione.

Si dice che non esisterebbe musica senza il silenzio fra le note ed è così. L’inazione è il silenzio della realtà, è ciò che la rende reale. Vi è una codipendenza: non esisterebbe l’agire se non esistesse la sua negazione e viceversa ma il punto è un altro: il punto è capire quanto è importante che esista il vuoto per dare senso al pieno e la morte per darne alla vita.

Dicevamo però del sublime. Un altro libro che ho letto in questi giorni è Camminare di Henry David Thoureau. A dirla tutta non parla del sublime, ma in un certo senso sì, solo che non lo chiama così (perdonami Thoreau, che ti faccio dir cose che non hai mai detto).

“Che vado a fare nella foresta se sto pensando a qualcosa che è fuori dalla foresta?” si chiede. L’obiettivo delle sue passeggiate non è riflettere sulla vita o sulle questioni mondane ma è l’atto in sé. Camminare per camminare. Una funzione che giustifica se stessa è la più perfetta definizione di funzione che si possa dare: non serve a niente se non a se stessa, è la più precisa circolarità, è un atto che esiste per esistere, e non per fare esistere dell’altro.

Ho letto Camminare pensando che parlasse dell’atto del camminare e in un certo senso lo fa, ma come pretesto. Non ne parla molto, alla fine. Non mi aspettavo di certo che mi consigliasse scarpe o sentieri: sapevo che sarebbe andato a parare in qualcosa di filosofico e infatti non mi ha deluso.

L’atto del camminare gli interessava per giungere a scrivere pagine sulle paludi. Ebbene sì: delle sue passeggiate non amava solo i boschi e la totale mancanza di proposito (salvo quello del camminare in sé) ma piuttosto i luoghi più inospitali e impervi, come le paludi.

“La sopravvivenza di una cittadina non dipende tanto dalla rettitudine degli uomini che la abitano, quanto dai boschi e dalle paludi che la circondano.” Perché, “per riassumere, tutte le belle cose sono selvagge e libere.

Le paludi sono una categoria filosofica, sono una metafora di ciò che l’uomo considera presenza nefasta, inesplorabile, ingrata. E da quella lui è attratto perché dà ancora più valore all’atto del camminare, alla funzione autoreferenziale: esiste con l’unico obiettivo di giungere al luogo meno attraente: la palude.

Mi piace pensare che la palude sia il non-agire, sia tutto ciò che avvolge il resto e si insinua negli spazi lasciati liberi dall’azione, in ciò che è dimenticato o considerato poco importante o procrastinabile. L’idea di morte è la più procrastinabile fra tutte, anzi ne è la quintessenza perché ogni procrastinazione è la forma del desiderio di allontanare la morte.

Si sa di dover morire ma procrastiniamone l’idea e l’accadimento il più possibile, grazie.

La palude è il sublime, cioè un’esperienza estetica che attrae e annienta. Non è piacevole, non è appagante: è la rivelazione della Verità. Nel dispiegarsi della sua potenza annienta e annichilisce, riducendo alla non-azione. Di fronte al sublime non si può che restare in contemplazione estatica ed estetica: si è ridotti a osservare attoniti, non potendo fare altro. Non si può scappare né si vuole restare ma al contempo non si riesce a chiudere gli occhi.

Il sublime è considerato un’esperienza estetizzante al massimo grado mentre non è niente di ciò ed è invece qualcosa di molto più complesso.

Per Schopenhauer è qualcosa che può annientare, per Kant è la contemplazione simultanea della nostra finitezza e dell’immensità della Natura. Si tratta insomma di un’esperienza in cui coesistono il tutto e il suo contrario, il finito e l’infinito. Qualcosa che la mente non riesce a contenere e che la getta nel terrore. Azione e non-azione.

Camminando Thoreau andava alla ricerca del senso filosofico ed esistenziale del cammino, trovandolo nella palude, nel luogo negato dall’uomo, nel selvaggio, come lui lo definiva.

Nell’indugiare nella ricerca del selvaggio trovava il senso del cammino. Le strade che si preferisce non percorrere, quelle che conducono al sublime e alla constatazione che tutto è un sogno, tutto è illusione.

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