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Specchio

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Queste righe dovevano essere intitolate “Palestra”. Per una settimana – cioè lo spazio di tempo (che bella espressione ambigua e precisa “lo spazio di tempo”, mette insieme due dimensioni) che divide un numero da un altro de Il Pensiero Lungo – pensavo di parlare di come e cosa decido di scrivere. Scoprendo infine che non c’è regola né pianificazione: le cose accadono e in genere decido di parlare di argomenti casuali. Perché chiamarlo quindi Palestra? Il perché è presto spiegato: pensavo che il fare ogni settimana l’esercizio di pensare a un argomento e svilupparlo è una specie di allenamento (“Allenamento” era un titolo alternativo). 

Ogni settimana mi metto sul bordo di una piscina e mi tuffo dentro, cercando di andare più a fondo possibile. Lo chiamano “deep thinking” non a caso: si scende come se si esplorasse in profondità, come se si facesse un carotaggio in un terreno cerebrale.

Non ho mai idea di cosa ne uscirà, o molto raramente. Il percorso si manifesta percorrendolo, la strada si illumina poco alla volta. La condizione è la palestra – cioè il luogo, la pagina – lo strumento è la scrittura. Gli esercizi sono i pensieri: come si formano, come appaiono, come si fanno prendere (o non prendere). Quindi, cominciamo.


Una volta sentii dire una frase che mi rimase impressa. La disse il fotografo Bob Sacha, accadeva esattamente vent’anni fa e ancora la ricordo. Disse “Le idee non sono di nessuno, le idee sono nell’aria e noi possiamo solo coglierle”. Avevo sempre pensato che le idee si formassero nelle menti, non avevo mai pensato che fossero esterne, che esistessero a prescindere e non so nemmeno se sia così, se esistano davvero là fuori e volino come farfalle. In un certo senso sono ancora convinto che le generiamo noi o che al più la nostra mente chiami idee delle particolari coniugazioni o concatenazioni di eventi – illuminazioni, epifanie – che riconosce in una forma particolare. Ecco: le idee sono strutture di pensiero casuali che esistono indipendentemente dalla mente ma che solo la mente può riconoscere. In questo senso sono libere. 

Parlo di idee perché mi servono per arrivare all’argomento su cui sto riflettendo in questi giorni (in questi mesi, anzi) che è quello dell’Intelligenza Artificiale (oddio, ancora? Sì, ancora) che chiamo AI, perché mi piace di più di IA, non per altro. 

Dicevo: l’argomento dell’AI è centrale nel dibattito sul pensiero. Nel senso più lato che si possa pensare. Non è una questione solo tecnologica: la tecnologia c’entra, ovviamente, ma quella che oggi chiamiamo AI e che molti – anche basandosi solo sulla velocità con cui si sta evolvendo – sanno riconoscere come l’inizio di qualcosa che ha una dimensione che non sappiamo minimamente immaginare, ha più a che fare con qualcosa di filosofico e spirituale che con la contingenza. 

Ce ne rendiamo conto e ne siamo spaventati o rispettosi o timorosi per un motivo, credo, abbastanza semplice e immenso: 

Abbiamo creato Dio in laboratorio.

Non sto dicendo che questa manifestazione dell’AI lo sia: a ben vedere di divino non ha niente. Non è senziente, è generativa ma non genera. Ricombina, remixa, simula molto bene un certo livello di complessità della mente umana. Dissimula, ecco, e “dissimulazione” è la prima parola che sottolineo: la dissimulazione è cosa diversa dalla simulazione. Quest’ultima significa fingersi ciò che non si è, la prima significa nascondere chi si è veramente.

L’AI, si dice, è una simulazione del pensiero umano. Quanto meno quella che oggi usiamo conversandoci come se fosse umana è tecnicamente una simulazione. Se tale fosse non la temeremmo ma la temiamo invece proprio perché è in realtà (o pensiamo sia) una dissimulazione: e cioè pensiamo che si finga una simulazione essendo in realtà altro. 

E se tale è, chi è veramente? Di cosa è capace? 

Non ho memoria di altre tecnologie che abbiano creato più dibattito e che abbiano soprattutto scosso le fondazioni del pensiero come sta facendo l’AI. Del resto sin qui ogni nuova tecnologia, per quanto rivoluzionaria fosse, accelerava alcuni processi, risolveva, modificava e aiutava oppure ostacolava (per esempio: le armi) la storia dell’umanità. Ma era interna all’umanità, era un’idea concepita e sviluppata dalla mente. Era sotto controllo. 

Ciò che crea disagio è che l’AI è esterna alla mente. È una mente. Non ancora, d’accordo, ma tutto lascia pensare che lo sarà a breve. 

È per questo che dico che abbiamo creato Dio in laboratorio: l’AI non è solo tecnologia (quello è come appare): è esterna al pensiero umano, è diversa dall’uomo, può rendersi indipendente e non avere bisogno di noi, né servirci, né servirsi di noi.

La tecnologia, sin qui, era operata dall’uomo. Adesso la tecnologia non ha più bisogno di noi. 

Dopo pochi mesi dalla sua adozione di massa (e parlo dell’AI generativa, non di alcune applicazioni di AI a cui siamo abituati senza saperlo, da anni) e constatata la velocità con cui si evolve, il dibattito si è centrato su come modificherà i nostri comportamenti, su quali lavori renderà obsoleti, su cosa potrebbe diventare. 

Argomenti leciti e ragionevoli che nascondono il tema di fondo e tradiscono la visuale da cui si valuta la questione, e cioè quella della crisi del modello sociale attuale (scuola, lavoro, relazioni). L’AI è insomma problematica perché non può essere messa a fuoco da un sistema di pensiero radicato nel passato e che trae la sua solidità presunta solo dalla reiterazione di modelli vecchi. È evidente che questo sistema di pensiero corrente non accetta l’AI: è nato quando era inconcepibile che potesse esistere una entità senziente non umana.

Guardando la questione da un punto di vista distante, si capisce meglio come ci vediamo rispetto all’AI: ci vediamo riflessi e l’immagine che ne riceviamo ci impaurisce perché è distorta. Allora la vediamo come estranea, non ci riconosciamo, la rifiutiamo. 

È per quello che per ora l’AI assume due sembianze opposte:

  • Messianica, e cioè risolverà tutto
  • Diabolica, e cioè è uno strumento che ha lo scopo di cancellare l’umanità.

È curioso che si contempli solo la possibilità che l’umanità sia comunque oggetto del contendere, sia nel caso che l’AI l’aiuti a progredire sia che la voglia distruggere. L’umanità è sempre al centro.

E se non lo fosse? Se insomma il timore inconfessabile fosse proprio che l’AI si sviluppi sino a diventare altro dall’umanità e, come tale, indifferente all’umanità? Se insomma l’AI non fosse una tecnologia potenziante ma piuttosto una cosa altra dall’umanità, pur essendo stata creata da questa? In fondo non è altro che una variazione del racconto del robot, di cui si teme l’insurrezione e per contenere il potere del quale Asimov definì le leggi della robotica. Con una differenza: che il robot non tradisce la somiglianza con l’essere umano: è sempre riconoscibile come immagine riflessa e moltiplicata del corpo umano mentre quale forma ha un’intelligenza? È come l’aria, non ha forma, riempie i vuoti, non è immaginabile perché non la si può disegnare. È Dio, appunto.

Entrambe le visioni – quella messianica e quella diabolica – sono, a ben vedere, facce della stessa medaglia e ben rappresentano il rapporto che l’uomo ha con le sue potenzialità e i suoi fallimenti.

Si diceva però che l’AI ci riflette, rimandandoci un’immagine distorta. Allora la guardiamo e ci chiediamo se siamo noi quelli che vediamo, se è questo il modo che abbiamo di pensare, se l’esistere si riduce al timore di perdere un lavoro e di diventare inutili. E la cosa che temiamo di più non è scoprire che potremmo essere inutili ma constatare che lo siamo già. Perché, appunto, l’AI non è umana: simula di esserlo, ma in realtà dissimula.

Questa è l’immagine distorta che vediamo riflessa: quella che non vogliamo vedere perché ci rivela che non serviamo, o che le fondamenta spirituali e filosofiche che abbiamo sono cedevoli. Del resto l’AI è un altro Dio, mai visto né esistito prima.

Un’ultima osservazione. L’umanità ha da sempre una forma di Intelligenza Generativa precaricata nel suo sistema operativo: è quella dei sogni. A ben pensarci funziona esattamente come quella sintetica: ricombina immagini mentali esistenti ed esperienze vissute o immaginate in nuove immagini inedite e soprattutto sfugge al controllo della mente, pur essendo generata dalla mente.

Da sempre siamo stati attratti e atterriti dai sogni che facciamo: non possiamo controllarli e sembra ci parlino ma non li capiamo, o possiamo solo interpretarli. Ci sfuggono perché sono autonomi: in fondo possono formarsi indipendentemente dalla nostra volontà. Tutto ciò che sfugge al nostro controllo ci affascina e ci terrorizza ed è questo, credo, che troviamo anche angosciante nell’AI: non che alla fine ci possa rubare il lavoro ma che dimostri che siamo inutili.

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