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Sto per meditare. Sono seduto su una panchina in legno, distante migliaia di chilometri da casa, da dove medito di solito. Nella meditazione si dice che si torna a casa, che siamo la nostra casa, o almeno lo dice il maestro di meditazione vietnamita Thich Nhat Hanh. Meditando si è sempre a casa, perché la casa è in noi.

Mentre guardo le doghe di legno su cui appoggiano i miei piedi nudi, noto che sono segate a mano. Noto che alcune non sono incise dai segni lineari dei denti della sega ma da delle curiose evoluzioni circolari, che interrompono la precisione geometrica del taglio della sega.

Era una semplice doga segata a mano ma fra i suoi segni imperfetti, i cerchi un po’ discontinui, le venature inclinate, le sfumature di colore ci ho visto un mondo intero, e soprattutto una storia.

Quella doga era stata tagliata da una persona, non da una macchina. Quella doga ne conteneva il gesto e soprattutto il tempo che aveva impiegato a segarla. Un atto così materiale e brutale come separarla dal tronco che l’aveva generata era diventato un concetto di tempo. Se c’è il tempo – anche imprigionato – c’è una storia e quella doga ne conteneva diverse: quella dell’albero da cui veniva, quella di chi aveva segato il suo tronco e poi le altre, di chi l’aveva trasportato, segato, caricato su un mezzo e portato fin qui e poi montato, anni prima, sotto i miei piedi. C’erano vite e storie, anche solo accennate e alluse, ma c’erano più tempi, in un pezzo di legno.

Il tempo dell’albero si era fuso con quello dell’uomo. Nessuna frattura. Nessuna separazione.

Un pensiero che non mi abbandona mai è l’idea che spesso osserviamo distrattamente, quasi per necessità. Ogni nostro sguardo è una negoziazione tra la ricchezza del mondo e la limitatezza della nostra attenzione. Per questo comprimiamo il più possibile la visione della realtà, applicando un meccanismo che ci aiuta a sopravvivere al suo sovraccarico. Non possiamo notare ogni dettaglio, la nostra mente non è in grado di elaborarlo tutto. Eppure sembra che dobbiamo sempre avere la percezione di fare, vedere, produrre moltissimo, come se la quantità di cose e idee fosse un parametro di valutazione della loro bontà.

Avere una sola buona idea al giorno è già molto.

Del mondo abbiamo una visione compressa, che elimina moltissimi dettagli. Come si diceva, è necessario, non potremmo elaborare ogni più minuta informazione, e non servirebbe a niente. Ma la compressione toglie profondità: guardiamo senza vedere, registriamo presenze e ombre senza capire a cosa appartengono e cosa significano. Restiamo sulla superficie delle cose.

Le venature di quella doga scavavano in profondità e contenevano il tempo di maturazione di quel legno e le operazioni a cui era stato sottoposto poi. In un particolare non compresso c’era il tempo, ossia la quarta dimensione. Quella che sfugge a un’osservazione superficiale, allo sguardo che si posa su una strada trafficata di una città caotica.

Quel pezzo di legno però conteneva un universo: catturare il tempo significa dominarlo e le storie fanno questo, lo manipolano, lo invertono, lo alterano e lo evocano. Lo controllano.

Nel dettaglio c’è la storia del mondo, se si ha la pazienza di vederla.

Quel mondo che ci addestra a generare flussi incessanti di informazioni, che chiede (perché vogliamo credere che ce lo chieda, in verità non chiede niente e semplicemente sta), sopravvive anche l’idea di un’intensità selettiva, come se un solo pensiero — se è buono, se è interamente personale, se ha radici e ramificazioni — può valere quanto cento e milioni di pensieri frammentari. Per questo ho guardato quella doga pensando al tempo e pensando che anche il solo fatto di notarla potesse assolvere il compito quotidiano di pensare una cosa – possibilmente buona – al giorno.

In Considera l’aragosta, David Foster Wallace parla di aragoste in un modo singolare. Il racconto che dà il titolo alla raccolta di saggi, è un reportage per la rivista “Gourmet” sul Festival dell’Aragosta del Maine. Partendo da un evento apparentemente leggero come una sagra popolare, Wallace scrive una riflessione etica e filosofica sulla sofferenza animale e sulla dissonanza cognitiva dell’essere umano. Esamina la pratica di bollire vive le aragoste e si chiede se sia giusto infliggere dolore a creature senzienti per il nostro piacere gastronomico, facendo riflettere (“considerare”, appunto) sull’aragosta in un senso più profondo e problematico.

Il punto, e non me ne voglia l’aragosta, è che avrebbe potuto parlare di tutti i tipi di aragoste, e delle famiglie a cui appartengono. Avrebbe potuto indagarle dal punto di vista biologico o ecologico o comunque generale e invece decise di partire da un festival. Nel piccolo e circoscritto geografico trova il tutto, perché le storie – anche quelle di un festival che conosce forse solo chi vive nel Maine – contengono già tutto il mondo. Perché il particolare contiene l’universale e l’universo.

Osservando il particolare si pensa di perdere la visione generale. In realtà è osservando il generale e trascurando il particolare che non si vede niente. La visione del mondo compressa e complessiva dell’osservazione distratta è un’immagine, quella espansa e profonda del particolare, dato che contiene tempo e storie, è un oggetto di realtà, non ne è la sua rappresentazione.

La prima rappresenta, la seconda è.

Pensando si creano pensieri e idee, è quello lo scopo del resto, no? Quando i pensieri non dicono la realtà (non la nominano e quindi non la fanno vivere ed essere reale) si soffre la discrepanza: non c’è allineamento fra ciò che è pensato e ciò che è. Nell’osservazione del particolare, ho notato, pensiero e realtà si sovrappongono e la mente si acquieta. Credo dipenda dal fatto che nel dettaglio ci sono la storia e il tempo, Li posso vedere insieme, logos e chrónos, in una fibra di legno, nel taglio di una sega, irregolare e perfetto.

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