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Sistema

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Questo è un esperimento: ho raccolto diversi frammenti di ragionamenti fatti – iniziati e abbandonati, appoggiati in un posto e lasciati alla vista – pensando potessero avere qualcosa in comune fra di loro, anche se parevano e paiono distanti e disarticolati. Ho pensato che ciò che li poteva descrivere bene, cioè la parola che poteva stare in ognuno di loro era “sistema”. Quindi intendo capire se è vero, se l’indagine di questi giorni era attorno al sistema, al concetto, a cosa è un sistema e a quante forme può prendere. Forse appariranno come frammenti ma sono legati fra di loro. Credo. 

Frammento numero

Sto guardando Succession. C’è questa famiglia al cui vertice c’è un padre-padrone che deve decidere come spartire il suo impero. È anziano, non ha più molto tempo, ha fondato un gigantesco impero mediatico e non solo, ha un seconda moglie (non si capisce per ora se la precedente sia morta o sia solo ex), ha quattro figli che messi insieme non fanno una sua gamba. Il titolo dice già tutto ma come le serie ben scritte è interessante capire cosa ne esce, come evolvono i personaggi, che storie ci sono sotto quella principale. Mi pare di capire già dalle prime puntate che è difficile identificarsi in uno dei personaggi e tanto meno si sia portati a farlo. Sono persone che non si vorrebbe essere. Ma questa non è una recensione della serie. 

In Succession c’è una prima idea di sistema: quello familiare (il nucleo della società, la cellula da cui genera la configurazione più complessa) che ha una dimensione pubblica legata al contesto in cui vivono e all’esposizione cui la famiglia partecipa (nell’ostentazione) e da cui rifuggirebbe. Il motore morale – nel senso dei comportamenti, non della loro etica – è il potere: esso richiede un contesto pubblico – è un rito – ma è anche una condanna perché priva della propria riservatezza e della volontà di essere distanti, di esserne al di fuori. Il potere ti si concede se lo adori e lo eserciti, non si può avere potere e non esercitarlo. 

Un altro aspetto interessante di Succession è che mette in luce la natura poco evoluta di molti rapporti umani e sociali. Ci definiamo società moderna e per molti versi lo siamo, ma si ha il sospetto che sia una definizione che ha lo scopo di separarne la natura dalla società retrograda, come a dire che questa nostra è una società moderna perché non è retrograda, non perché lo sia in assoluto. 

I riti di questa società – pur nella sua modernità – sono però antichi e tribali. Il concetto stesso di gerarchia è uno dei meno evoluti della storia: la struttura di una gerarchia è pressoché sempre la stessa e prevede un vertice e dei gregari o sottoposti. 

Il sistema sociale contemporaneo è insomma secolare.

E non lo intendo solo dal punto di vista temporale ma soprattutto da quello evolutivo. Il sistema insomma si è di certo raffinato e modernizzato nelle sue parti ma la sua struttura – la costituzione – è sempre la stessa. Cambiano i nomi ma non i ruoli: i miliardari di oggi sono i re di una volta e in entrambi i casi si tratta di ruoli sociali d’autoelezione, nel senso che nessuno ha votato per scegliersi quei capi.

Si dirà che la struttura sociale funziona così da secoli e funziona talmente bene che si possono cambiare i nomi ma non i ruoli: cambia chi interpreta i re e le regine ma sempre re e regine restano.

Questa pigrizia nell’esplorare nuove possibili forme dell’organizzazione sociale è ciò che fa più di altro assomigliare la struttura della società a un’altra istituzione secolare: il denaro. Anche in questo caso poco è cambiato, anzi: non usiamo più i dobloni e non c’è più alcun legame fra l’oro nei forzieri delle banche centrali e la massa di monete in circolazione (per non parlare del denaro che alimenta la finanza, che è una delle più compiute e stupefacenti allucinazioni collettive) ma il metodo è sempre lo stesso da secoli e secoli, ed è aumentato solo nelle proporzioni, in ragione della crescita demografica e soprattutto della cupidigia dell’essere umano.

Società e denaro sono quindi due strutture che non si sono sostanzialmente evolute. E non sono nemmeno le uniche.

Frammento numero 2

Viviamo in quella che è chiamata “subscription economy”: usiamo servizi o compriamo cose che non ci apparterranno mai perché, appunto, ne compriamo l’utilizzo temporaneo. Più paghiamo, più i servizi che possiamo usare sono completi. L’incompletezza dei servizi più economici (sino a giungere a quelli gratuiti, cioè che prevedono pubblicità in cambio dell’essere gratuiti, e quindi gratuiti non sono) ha un duplice senso: ti ricorda costantemente che stai usando una versione incompleta di qualcosa e, negandoti funzioni, ti stimola a passare alla versione più costosa. 

Il lato positivo di questa economia è che non costruisce alcun rapporto fra fornitore e utente: il servizio può essere interrotto in qualsiasi momento. Il lato negativo è che non costruisce alcun rapporto fra fornitore e utente, che non sia una dipendenza o un bisogno, di per sé molto potenti, non si discute.

A questo punto possiamo isolare un altro interessante elemento della struttura sociale, e cioè la proprietà.

La proprietà ha un qualità molto particolare, che poche cose hanno: incorpora un’idea di futuro. 

Il suo reale valore è dato dalla somma della proiezione del suo valore nel futuro più quello attuale. Si può anzi dire che la componente futura, poiché è estesa nel tempo, è superiore rispetto a quella presente. Il valore di una casa è quello corrente ma è soprattutto quello futuro. Il valore di un’auto è… l’esempio è sbagliato: l’auto non ha valore o non ha proiezione futura: tendenzialmente è destinata a non valere niente, a meno che non si tratti di una Ferrari GTO.

Il concetto di proprietà trae sostanza dalla sua componente temporale. Se non avesse questo valore “ipotecario” non avrebbe la stessa forza.

Per capirlo meglio torniamo all’esempio di re e regine: come si è storicamente giustificata la necessità della loro esistenza? La natura divina una volta, le proprietà poi, spesso conquistate ammazzandone di più. I re sono i discendenti di carnefici o sono essi stessi carnefici, perché hanno derivato il loro potere temporale dall’averne ammazzati e depredati in numero maggiore. I re sono l’istituzionalizzazione di un certo crimine molto efferato che viene sterilizzato e divinizzato grazie al racconto di improbabili investiture e confermato da corone e spade.

Ed ecco apparire ciò che tiene insieme tutto: sistema, potere, tempo. È il racconto, è la storia. La storia – intesa come racconto, non come documento – è tecnicamente il mezzo con cui il potere certifica la necessità della sua esistenza. Necessità relativa alla sua preservazione, s’intende, ma magicamente trasformata in una conditio sine qua non che investe tutto e tutti. Vi è una giustificazione dell’esistenza della monarchia ed è l’investitura divina, è l’onore conquistato sul campo, sono i territori annessi. In fondo si tratta di strumenti che servono a sostanziare l’esistenza di quelle parti della struttura, nel caso specifico: la testa. Noi, il resto, siamo il corpo e generalmente prendiamo parte al racconto come comparse, quindi spogliati del nostro nome e della nostra identità.

Ma queste non sono nemmeno denunce: sono constatazioni, e non sono nemmeno interessanti, almeno non qui e non ora.

Il racconto è lo strumento. Difficile crederlo? No, è molto più semplice di quanto si possa pensare: basta pensare ai fregi del Partenone, all’Arco di Costantino o alla Cappella Sistina, per citare solo alcuni esempi. Sono sculture, architetture o affreschi ma sono soprattutto racconti.

Si sbaglierebbe però se li si considerasse solo come racconti di storie passate. Di certo narrano o sono ispirati da fatti più o meno fantasiosi che devono eternare e consegnare alla Storia chi li ha voluti ma hanno anche una particolarità più sottile e sfuggente: contengono il futuro, sempre. 

I fregi del Partenone celebrano le origini mitologiche di Atene, e facendolo traslano nel futuro l’idea che se il mito è fondativo, la storia della città non può che essere eterna. L’Arco di Costantino celebra il passato esattamente come celebra la potenzialità che la gloria militare si perpetui. La Cappella Sistina celebra addirittura la Genesi, la creazione dell’uomo. Per non farsi mancare niente, la Chiesa (una delle istituzioni più secolari mai inventate, forse la più secolare) inventa, conferma e dà forma all’origine di tutto, appropriandosi della inizio del libro della Storia, del grado zero che è preceduto quindi dal Nulla e dell’Informe. Dio escluso, s’intende, perché lui esisteva prima, è sempre esistito e sempre esisterà. 

A parte questo e per chi ci crede, il racconto – si diceva – ha un’altra qualità, fra le tante che ha: dice se stesso (cioè racconta la storia, ossia se stesso) e allude contemporaneamente ad altro. In sé narra una storia (il passato) ma porta anche con sé un’idea di futuro, e più precisamente il fatto che ciò che è stato potrà ancora essere e che il mito fondativo della monarchia o della religione sono condizioni sufficienti per garantirne l’eternità. Una storia che racconta solo il passato e che non allude alla possibilità di potersi ripetere è destinata a essere dimenticata. Una storia che perpetua un mito suggerisce la sua stessa ricorsività, e quindi la capacità di potersi ripetere all’infinito.

Frammento numero 3

Non c’è una storia a questo punto, c’è una conclusione, o il culmine del ragionamento. Riassumendo: 

  • I sistemi sociali sono rimasti sostanzialmente invariati, la loro struttura cambia nome alle parti ma non varia la forma.
  • Le strutture sociali si consolidano attorno al concetto di potere e di esercizio dello stesso (e di diritto a esercitarlo).
  • Questo diritto è basato sulla proprietà che incorpora il tempo, soprattutto quello futuro.
  • Lo strumento fondamentale per veicolare l’idea del diritto divino che alcuni hanno di esercitare potere (e di mantenere così invariata la struttura del sistema) è il racconto, o la storia che dir si voglia.
  • Il potere della storia è quello di incorporare a sua volta sia il passato (la sostanza del racconto) che l’allusione ad altro, cioè la proiezione futura.

La conclusione è un salto ancora più ardito: i sistemi danno ordine al caos della realtà (oltre che regolare i rapporti sociali, oltre che essere insomma una forma più o meno stabile in un flusso temporale ove tutto cambia, incessantemente) e si perpetuano attraverso il racconto. 

La dimensione futura del racconto – il suo alludere alla possibilità che il passato si ripeta – ha una funzione molto umana: serve a sconfiggere l’idea della morte.

La morte è la fine di tutto ma il racconto dà l’illusione di poterla sconfiggere. Se qualcosa è accaduto ma potrebbe accadere nuovamente, allora è più forte della morte stessa. Cosa rende possibile la dimensione futura del racconto? Cosa fa credere all’umanità che la morte possa essere anche illusoriamente sconfitta? L’immaginazione.

Le storie attivano la fantasia e la produzione di immagini mentali, quindi la creazione. L’uomo che crea è l’uomo che sconfigge la morte. L’uomo che può generare il futuro o un suo simulacro è più forte della morte. 

O ne ha l’illusione. Un’illusione però discretamente potente.

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