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Notte

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Può capitare in ogni città ma a Venezia l’effetto è più potente. Sarà per la sua natura teatrale, per quell’idea che se ne ha girando per calli e campi deserti alle due del mattino, ma a Venezia la notte è qualcosa di diverso e più potente. 

Come accade quando si scopre un luogo bellissimo ed è saggio dirlo solo a chi non ne farà scempio e ne coglierà la bellezza, non consiglierò di fermarsi a dormirvi almeno una notte. Venezia è bella solo di giorno e la notte non è niente di che. Meglio lasciarla a chi di notte se ne riappropria o la vede finalmente riposata, sincera, reale e non calpestata, sovraffollata, sudata e infastidita. Di notte Venezia è una donna che si guarda riflessa nell’acqua ed è tutto il mondo e tutto ciò che c’è da sapere della vita. Non serve altro.

Le città di giorno sono la realtà, di notte sono il sogno. 

Di notte la città è tua, di giorno la condividi. Le insegne dei negozi illuminati, vestigia di pubblicità che dicono cosa vi si fa all’interno per passanti assonnati che non vi prestano attenzione. Per questo sono poetiche le insegne accese di notte: perché sono inutili o lo sono per un popolo di persone che vi vede la bellezza e non l’utilità. La notte non serve, la notte è la faccia oscura della Luna: la immaginiamo, non la conosciamo, non l’abbiamo mai vista davvero.

Del resto ci hanno insegnato che di notte si dorme. Dormono gli animali (dormono davvero gli animali di notte?) e quindi dormono gli umani. Di notte si sogna, dentro la propria testa, lasciando che a creare senso ci pensi la nostra intelligenza artificiale generativa portatile: la nostra mente.

La città di notte è un sogno lucido, e Venezia è il sogno lucido: sai che è reale ma sai anche che è un sogno. È un sogno cosciente che vive nel dominio dell’ambiguità e del mistero: le persone di notte sono ombre (forse non sono nemmeno reali) e le ombre sono fantasmi. Il silenzio è l’unico rumore di fondo e il silenzio fa sentire tutto: la città di notte scricchiola, miagola, sussurra, cigola, striscia, canticchia, sbuffa, fischia, geme, ulula, singhiozza, ride, borbotta, ansima.

Di giorno non la senti mica parlare con questa voce: di giorno senti le voci e i rumori dell’umanità, di notte la città è una creatura.

Esegue una partitura delicata, che va ascoltata tendendo molto attentamente l’udito. Chi passeggia di notte per la città la sente. E mentre cammina sogna, o cammina in un sogno.

Nel sogno ci si è immersi e incoscienti ma quando il sogno è una città di notte, la realtà ha una forma cangiante e ambigua: le cose sono e non sono, sembrano e sono altro. 

Di notte non c’è il tempo, o il tempo è un lungo istante identico a se stesso che svanisce al sorgere del sole. 

Di notte non ci sono il sole e la sua evoluzione orbitale, le ombre non cambiano (le ombre sono fisse e sono quelle dell’illuminazione notturna, chi cammina in Campo San Polo alle 3 del mattino ritrova la sua stessa ombra di due ore prima). Il tempo è fermo e quindi la notte sospende il suo scorrere, è una tregua, e lei sconfigge la morte o la ritarda. La notte non è la metafora della morte ma, anzi, è la sola capace di sconfiggere la morte, ritardandola al mattino successivo.

L’abitudine a considerare (o sperare) che l’accumularsi dei giorni segua una tensione lineare e progressiva, il pensiero insomma che non vi siano pause o arresti, che indietro non solo non si possa ma neanche si voglia tornare, fa concepire la sospensione del tempo come nefasta. Invece la pausa della notte è un respiro profondo fatto a occhi chiusi, per richiamare dentro il corpo l’aria della vita e scaldarla. 

Di notte si dorme, di notte si sogna. A meno che di notte non ci si avventuri in una città che ha una forma diversa e che sembra un altro luogo. Il buio è come la nebbia e cancella le cose: di notte vedi di meno e vedi di più, o meglio. Vedi con la mente e non con gli occhi. 

Le dimensioni sono più brevi, si vede solo finché lo sguardo arriva nella profondità delle cose illuminate e oltre vede solo l’immaginazione. Le ombre sono persone e le persone sono ombre. Un gatto ci guarda e fugge via. un altro si siede con comodo e ci osserva. Forse ha visto un’ombra anche lui o ci ha riconosciuto come creature di un sogno dato che siamo in un sogno, anche se sappiamo di essere vigili. Siamo in un sogno dove il tempo non esiste, in cui un attimo dura ore.

Chissà se esiste davvero questa città o se l’abbiamo sognata. Le insegne luminose ormai si spengono perché c’è quasi luce. A cosa servivano poche ore prima, nel nero inchiostro della notte? Stavano sopra porte e ingressi chiusi, o erano lì per chi le sapeva decifrare. Erano segni luminosi di un alfabeto che legge solo chi sogna restando vigile, chi trova perfettamente razionale l’irrazionale e viceversa.

Poco fa era notte, ora sta spuntando il sole e si sente l’odore di pane. Si è rimesso in moto il tempo e le ombre si sono riattaccate ai nostri piedi e alle colonne e alle finestre decorate dei palazzi. Fingono di non sapere che questa notte scenderanno di nuovo nelle calli e passeggeranno assieme agli umani e saranno viste, e faranno credere di essere una cosa e saranno tutt’altro. Di notte ognuno crede ai propri occhi sapendo che ingannano. 

Un sogno deve pure sempre restare indecifrabile e misterioso, una proiezione di menti che non si conoscono né si riconoscono. Chi passeggia di notte nella città vive due volte: ha vissuto nel sole la realtà e vive nella notte il sogno.

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