Non ho mai saputo raccontare storie.
L’ho sempre detto e continuo a dirlo. Però aggiungo un altro dettaglio, non secondario: so riconoscere quando una storia è raccontata bene. E per “riconoscere” intendo che riesco a smontarla e a capire perché le sue parti e come sono accostate e incastrate e sistemate l’una accanto all’altra funzionano.
Una premessa doverosa: non parlo di storie lineari, ossia di quelle che racconterebbe un bambino: succede una cosa, poi un’altra che ne causa un’altra e così via, fino alla naturale (e prevedibile) conclusione. Le storie migliori – o meglio narrate, dovrei dire – non hanno mai un montaggio lineare. Le storie, che l’umanità ha sempre amato e continuerà ad amare finché esisterà l’umanità, devono sorprendere, sconvolgere, insegnare, coinvolgere, confondere, terrorizzare, rassicurare.
Il loro aspetto più importante è però un altro: le migliori storie sono quelle che hanno bisogno di essere ascoltate, cioè che richiedono la presenza dell’ascoltatore: lo stimolano, gli danno l’illusione di partecipare alla loro costruzione, gli fanno capire che senza di lui loro non esisterebbero.
Secondo me ci riescono grazie a uno stratagemma: quello del montaggio. Le storie sono fatte di parti e come queste si stimolano a vicenda, come funzionano da prologhi, sviluppi ed epiloghi e come un epilogo si traveste da prologo e viceversa.
Le storie attivano la mente e l’immaginazione. Ascoltandole le animiamo nella mente e, assieme a quello che suscitano, creiamo altri mondi.
Per spiegare meglio cosa significa il montaggio, userò un esempio solo apparentemente distante: userò una musica, o la susciterò. È famosissima e stupenda: è “Rapsodia in Blu“ di Gershwin.
Si tratta di una delle composizioni più belle e perfette della storia della musica.
Perché è così bella e perfetta? Innanzitutto perché è musicalmente magnifica: ha una complessità melodica di rara purezza e un montaggio imprevedibile e instancabile. È sia jazz che classica, è incongruente e caotica, è precisa e implacabile, è grandiosa e spavalda. È l’idea di un’America possibile, anzi: è l’America Possibile.
Gershwin la compose su commissione nel 1924, per un concerto che avrebbe dovuto mostrare lo stato dell’arte della composizione musicale americana. Lo fece a modo suo: fondendo il jazz al linguaggio classico, nel tentativo da lui sempre perseguito di fondare la Musica Classica Americana. Per farlo aveva a disposizione pochissime settimane.
Raccontò al suo biografo che l’idea centrale gli venne in treno per Boston: il ritmo regolare della meccanica e la furia dei tempi moderni infusero lo spirito in questa musica che raccoglie tantissimi stati d’animo: dallo svagato ed elegante inizio solista del clarinetto (un’invenzione del clarinettista che la eseguì alla prima, che “trascinò” in un glissando le note del monologo di Gershwin, cosa che gli piacque molto, tanto da chiedergli di rifarla alla prima), alle riflessioni a volte pacate e altre volte focose e nevrotiche del piano solista, fino ai respiri grandiosi dell’orchestra.
Si può osservare a questo punto che la Rapsodia è una storia in sé ma è così interessante anche per le storie che ha generato la sua stessa creazione: il treno per Boston, il clarinettista ecc. Sembra di essere partecipi alla sua genesi. Storie dentro storie che mi hanno fanno venire in mente una cosa che diceva E. M. Forster:
‘The king died and then the queen died’ is a story. ‘The king died and then the queen died of grief’ is a plot.
La prima formulazione è quella che impiegherebbe un bambino: prima muore lui, poi muore lei. La seconda aggiunge un elemento che dischiude la possibilità di una trama più complessa: la regina non è solo morta dopo il re, ma è morta per il dolore provocato dalla sua morte. La cosa si fa più interessante.
Tornando a Rapsodia in Blue, la cosa più moderna e avanguardistica di questa composizione (non a caso completamente fraintesa da quasi tutti i critici dell’epoca) è la sua struttura imprevedibile e poco classica. Per molti versi i momenti da cui è composta non si susseguono con logica ma sono montati in modo caotico. Io preferisco dire che sono montati in modo contemporaneo e aperto. Non a caso il solito ottimo Leonard Bernstein ne notava proprio questa particolarità (ovviamente amandola): diceva che la Rapsodia la puoi allungare o accorciare, la puoi tagliare a pezzi, la puoi smontare e rimontare al contrario (una cosa che fa impazzire i puristi della classica, comprensibilmente) ma alla fine resta sempre la Rapsodia.
Mi è capitato poi di vedere una conferenza di Trey Parker e Matt Stone, i creatori di South Park, cioè una cosa decisamente distante da Rapsodia in Blu. Cosa dicevano? Dicevano che se una storia la racconti usando “and then” (cioè “accade una cosa e poi ne accade un’altra”) la stai raccontando male. Se invece usi “but” e “therefore” (“ma” e “quindi”, di conseguenza) lo stai facendo bene. Una buona storia — o meglio, una storia raccontata bene — si compone di parti che si susseguono in modo imprevedibile facendone germogliare altre ancora, non di frammenti arrangiati in modo lineare.
La Rapsodia in Blue è composta per “but” e “therefore” e mai con “and then”. Non c’è mai quello che ti aspetti dopo, anche se il suo tema ti accompagna dall’inizio alla fine. La voce con cui si fa sentire il tema (la musica, insomma) non è mai consecutiva ma consequenziale, e consequenziali possono essere anche parti che si contraddicono fra di loro, o coppie di elementi in contrasto fra di loro ma in accordo con un terzo.
C’è infine lo spazio dell’immaginazione, cui accennavo prima: è quello riempito dall’ascoltatore/lettore. Non è detto, è semmai alluso o suggerito ma mai esplicitamente.
A rappresentarlo sommamente c’è il fumetto. Come nota Scott McCloud:
La magia dei fumetti accade fra le vignette, perché è lì che il lettore immagina la storia non disegnata.
Le storie non esisterebbero senza l’umanità che le inventa, le racconta e soprattutto le ascolta, immaginandole. Non è un caso che il montaggio sia così determinante: serve a tenere sempre desta l’attenzione e a non fornire mai elementi della trama prevedibili, pena la distrazione e alla fine la perdita di interesse dell’ascoltatore.
La capacità di inventare e soprattutto raccontare storie è un potere immenso e non a caso Steve Jobs diceva che “La persona più potente al mondo è colui che è capace di raccontare storie, perché è in grado di comunicare una visione e dei valori e di dare forma a come penseranno intere generazioni.”
Le storie diventano narrazioni e le narrazioni plasmano la realtà e come la si legge, dando quindi forma al futuro.
Si può anche definire il passaggio dall’età infantile a quella adulta come quella fase durante la quale ci si appropria – se se ne è in grado – degli strumenti per modificare le storie, cioè per montarle diversamente dal loro svolgimento naturale e prevedibile. Significa avere potere sul tempo perché lo si può fermare, anticipare, posticipare, cancellare e accelerare, anche se solo nella sua forma trasposta, cioè quella della narrazione.
Le storie sono uno dei pochi strumenti che abbiamo per manipolare il tempo, cioè l’unica grandezza e forza – assieme alla gravità – alla quale siamo soggetti, senza possibilità di fuga.
Un giorno di decine di migliaia di anni fa un essere umano prese in mano il filo del tempo e se lo avvolse al dito. Attraverso la parola lo descrisse raccontandolo in forma di storie, prese la catena dei fatti e la smontò, rimontandola in modo diverso. Vide che funzionava, e continua a farlo ancora oggi.