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La spiegazione

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La spiegazione

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La ricerca della teoria unificata o totale è la più praticata dal genere umano, mi sono fatto questa idea. Ritorno a un tema quasi ossessivo, e cioè quello delle domande e delle risposte, o più precisamente, del fatto che le domande sono più interessanti delle risposte. Più invecchio, più dovrei volere risposte, più invece cerco domande e sono meno interessato alle risposte. Le spiegazioni, cioè la forma che prendono le teorie unificate o i tentativi di spiegare il mondo e la vita, mi interessano sempre di meno.

L’ho capito nel tempo e lo capisco sempre di più. L’ultima volta mi è capitato pochi giorni fa, parlando con una persona di grande intelligenza e colta che mi ha intrattenuto con una spiegazione che dall’economia passava per l’Ucraina attraverso Israele e i vaccini e la politica e la crisi delle scienze e non ricordo più cos’altro. Interessantissima e plausibile in molte parti, quindi non scevra di elementi convincenti, eppure. Eppure, dopo un quarto d’ora di questa tirata, non volevo altro che silenzio. Volevo guardare le fronde degli alberi mosse da una leggera brezza al tramonto. Non volevo nessuna risposta, specie di questo genere, che tengono insieme tutto, anche quello che non vuole stare insieme a niente.

Sono affascinato dall’eleganza delle formule matematiche, così come lo sono dalla loro capacità di spiegare la complessità del reale. “Tutto è matematica” ho letto in “Fluke” di Brian Klaas. Lo stesso spiega però anche che, sebbene la matematica possa spiegare e rappresentare in modo razionale i fenomeni reali, non può farlo sino al più minuto dettaglio. O meglio: teoricamente può farlo ma è troppo complicato.

Ci pensavo guardando la pioggia scendere, oggi, in una domenica uggiosa e lenta. Ogni goccia può essere descritta da numeri: il suo peso, il suo volume, la formula che ne definisce la forma e la curvatura, la traiettoria che copre dalla sua origine sino alla superficie terrestre, come si schianta a terra separandosi in molteplici gocce più piccole, come viene assorbita dal terreno, come si trasforma in vapore acqueo. La vita di una goccia di pioggia è in sé tremendamente complicata da descrivere in un modello matematico, anche se è possibile. Io non lo so fare ma un fisico potrebbe. Al di là dell’utilità scientifica dell’impresa, vi riuscirebbe per una sola goccia, e poi potrebbe ripetersi per le gocce vicine e poi per quelle appena più distanti ma che dire di tutta la pioggia che cade da una nuvola? Parliamo di chilometri quadrati di pioggia, parliamo di miliardi di gocce di pioggia che scendono nel tempo, a volte per decine di minuti, altre volte per ore o giorni. È possibile teoricamente ma è impossibile materialmente, o almeno oggi.

Sarebbe utile poi? È più ragionevole applicare delle semplificazioni e dei modelli che descrivono in maniera approssimativamente precisa un fenomeno del genere, senza scendere troppo nel dettaglio. Lo descrivono in termini quantitativi, cioè in modo anche elegante ma non perfettamente preciso, cioè non qualitativo.

La necessità di spiegare la realtà e la vita è molto umana: ogni domanda che pretende una spiegazione del genere è una sembianza della domanda fondamentale, e cioè che senso ha la vita e, per estensione, perché dobbiamo morire e se la morte ha un senso.

Siamo affascinati dall’idea che esista una formula che lo spieghi e che, finalmente, plachi la nostra sete di conoscenza. Ogni spiegazione è come una storia ben raccontata: soddisfa, dà l’impressione di aver capito tutto, quieta la mente. Si tratta però di risposte quantitative, è il caso di ricordarlo.

Giorni fa ho anche scritto una breve frase, volutamente e velatamente provocatoria. Ho scritto:

La psicologia ci ha dato l’illusione di poter spiegare qualsiasi comportamento umano.

Queste affermazioni/opinioni nette, ho scoperto col tempo, raramente vengono interpretate come opinioni ma più spesso come dichiarazioni di guerra, come se volessi stabilire un punto o dichiarare una verità assoluta. Generalmente non vengono neanche lette con cura (la soglia di attenzione media è quella di un canarino): se lo fossero si capirebbe che non intendevo affermare che la psicologia non spiega qualsiasi comportamento umano ma che è percepita come in grado di farlo. Che era un discorso funzionale a quanto sto dicendo qui, più estesamente, e cioè che vogliamo risposte e che cerchiamo conferme. Potremmo poi discutere sul fatto che quelle più nefaste paiono mediamente più convincenti delle altre ma tant’è: i finali aperti o dubitativi non sono tollerati.

Invece io, non perché sia meglio degli altri ma perché son io e qui scrivo quello che mi passa per la testa, trovo che le risposte definitive siano noiose e di tipo quantitativo: spiegano, ma non tutto, o forniscono una spiegazione plausibile che fa strazio del dettaglio, del particolare granulare, come direbbero quelli che si occupano di statistica.

La spiegazione definitiva ha un altro vulnus: nel suo splendore razionale è univoca, quindi non ammette l’opposto. Che il dritto e il suo rovescio possano coesistere è un concetto estraneo alla cultura occidentale, parrebbe. Non solo non ci entra nella testa ma è anche osteggiato come non plausibile. Non mi stupisco che non ci entri: è davvero difficile pensare a due o tre cose contemporaneamente ma è massimamente complicato pensare a una cosa e al suo opposto.

Giorni fa ne parlavo con l’amico Silvio Castelletti, in relazione a una battuta che avevo scritto qui:

Esiste sicuramente una parola tedesca per definire quel complesso sentimento che consiste nel provare gioia per il successo di una persona e contemporaneamente nel desiderare che ogni sciagura gli si abbatta contro.

Mi accorgo ora che partiva dal presupposto che fosse definibile un sentimento umano che contempli anche il suo opposto, espresso poi in tedesco (i tedeschi inventano parole lunghissime per qualsiasi cosa): nel caso specifico la gioia e il desiderio di veder rovinata la persona destinataria della suddetta gioia.

Era, appunto, una battuta ma nella discussione si è evoluta sino a diventare una riflessione sul fatto che solo i monaci zen riescono a pensare a più concetti contemporaneamente. Se ciò non fosse, preferirei non essere contraddetto, il punto, ancora una volta, è un altro.

Il punto è che, forse, non esiste una spiegazione o, quantomeno, un’unica spiegazione.

Forse amo semplicemente i finali aperti, mi sono detto, perché mi danno l’illusione che possa succedere qualcosa dopo, che la vita continui. Cosa avrei dovuto dire al termine della somma dissertazione dell’amico colto? Niente, non c’era spazio per altra discussione, perché la sua teoria era splendente e perfetta in ogni sua parte e spiegava tutto, dai massimi sistemi al prezzo delle uova. Che sono connessi, intendiamoci, ma sospetto lo siano in modi un po’ più complessi di quanto ci piacerebbe pensare.

Non c’era commento che avrei potuto fare: aveva detto tutto, e molto bene.

Però lo ringrazio perché ho capito che, alla fine, non me ne frega niente delle spiegazioni. Mi interessano più le ipotesi delle tesi. Le dimostrazioni servono semmai a stabilire nuovi punti di partenza della ricerca, e se anche lo scopo ultimo della scienza e della curiosità umana è spiegare tutto (cosa su cui dissento e nemmeno mi auguro, anche perché l’infinità del cosmo non è spiegabile) mi auguro non si arrivi mai a scoprire l’equazione che tiene tutto dentro, cioè la traduzione matematica della spiegazione finale.

Sarebbe elegantissima, non ne dubito. Ma dopo di lei non ci sarebbe più niente e a me piace sempre chiedermi “E dopo, cosa succede?”.

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