A volte mi prende una certa irrequietezza, spesso nelle ore notturne. Allora scosto la tenda e guardo il cielo. C’è la luna e si sta riempiendo. La luna mi provoca irrequietezza, in proporzione a quanto va riempiendosi.
Questa constatazione – che non so mai decidere se sia razionale, empirica o astrologica, pur non credendo all’astrologia – ha un duplice aspetto: mi agita e mi calma. Mi agita constatare che è la causa dell’irrequietezza e mi calma allo stesso tempo, poiché la giustifica. Non c’è molto di razionale in tutto ciò ma è una possibile risposta.
La luna è anche simbolica: è un corpo celeste palesemente diverso dalla Terra: è nel cielo, è distinto, è distante. La sua esistenza ricorda quella del cosmo, dell’esterno. Il nostro sguardo è rivolto a ciò che conteniamo – pensiamo sempre a ciò a cui stiamo pensando, siamo trattenuti dai nostri pensieri – e alla terra. Ci guardiamo le punte dei piedi che poggiano sul terreno. Apparteniamo a questo pianeta eppure la luna ci ricorda che c’è dell’altro: che c’è il resto, l’esterno.
La luna è il simbolo di tutto ciò che so esistere, pur preferendo non pensarci. Delle diverse interviste rilasciate da Paolo Cognetti in questi giorni dopo il TSO a cui è stato sottoposto, mi hanno impressionato diversi dettagli ma uno in particolare: quanto poco lo separasse dal vedere crollate certe certezze – o la sola idea di poterle, ancora una volta, contenere. Uno scivolamento più o meno pronunciato verso una dimensione in cui tutto si fa confuso e non si sa più a cosa aggrapparsi per evitare di scendere ancora più in basso. Non saprei dirlo più semplicemente che così: a volta la razionalità è un’illusione. È una storia che ci raccontiamo per avere l’impressione di capire o che la vita abbia un senso, anche se non lo comprendiamo.
La razionalità è una forma possibile delle cose.
Poi arriva il momento in cui non ce l’hanno più, e vediamo implodere l’edificio delle certezze. O ne vediamo la palpabile inconsistenza.
Forse è quella l’origine dell’irrequietezza: è la forma del non detto, di ciò che la razionalità non può spiegare.
Questo sottile velo ci separa dal caos. Normalmente lo nasconde alla vista e poi un giorno non c’è più.
Io per esempio temo che possa svanire all’idea che la meditazione non sia una forza capace di contenerlo, che un giorno il suo potere possa abbandonarmi, che un giorno non faccia più effetto. Ed è paradossale pensarlo, dato che proprio la meditazione insegna semmai che è inutile curarsi di ciò che non è ancora successo e non è presente, e forse non si verificherà mai.
Nei momenti in cui sento che l’esistenza di qualcosa di inquietante è plausibile – la sento, la luna me la mostra – penso che i sistemi di difesa possano cedere e la storia che mi racconto non funzioni più. In fondo ci raccontiamo solo storie: danno un senso, hanno uno svolgimento, articolano la sceneggiatura che incessantemente scriviamo attorno al presente.
Il principio delle storie è il controllo. Chi le narra può deciderne lo sviluppo, i colpi di scena, il senso. Se questo controllo non è totale, la storia comincia a essere narrata da altri o da altro. Perdere il controllo della narrazione significa perdere il controllo di se stessi.
La discesa verso il disagio mentale è spesso definita così, come uno sprofondare: nell’incapacità di fermarsi, nella perdita di riferimenti, nell’impossibilità di chiedere aiuto o, peggio, di pensare che un aiuto sia possibile.
La lettura di un libro potentissimo e umanissimo come L’arte di legare le persone, negli stessi giorni in cui leggevo di Paolo Cognetti, mi ha fatto collegare altri punti.
È un altro Paolo a scriverlo: Paolo Milone, psichiatra. Parla della vita nel Reparto 77 in un ospedale psichiatrico di Genova. Parla di tante storie di gente con problemi mentali e di lui e dei colleghi che devono arrivare a fare quello che molti “sani” allontanano dalla mente: che si possano costringere persone legandole, per il loro bene e per proteggere altri dalla loro furia.
Quello che lui narra con delicatezza e brutalità, con onestà e incoscienza (nell’esporsi al giudizio di chi lo considera un perfido carceriere) mi ha lasciato con una domanda. Per fortuna, aggiungo.
Le persone malate di mente si accorgono di esserlo?
Forse è una domanda che pongo a me stesso, e quindi Milone non potrebbe rispondermi. Mi accorgerei se non fossi più sano? E, se non me ne accorgessi, quella nuova realtà mi sembrerebbe diversa? Non lo so, in fondo cerco di capire se si possa capire se quel velo che ci separa dal caos e dall’irrazionale fa rumore quando cade, se sposta un po’ l’aria.
Comunque sto bene.
Voglio solo conoscere il territorio, dopo aver avuto l’illusione di aver tracciato la mappa più precisa possibile. Non conoscendo i luoghi che pretendeva di descrivere.
Mi ha solo fatto riflettere quanto poco ci voglia, quanto poco ci separi dal constatare che tutto va più o meno bene (che tutto è sotto controllo) e poi non va più bene. E quanta forza serva a guardare in faccia il caos e a pensare a come reagire, e poi a farlo. A ritracciare una nuova mappa, a rivedere i confini, a censire nuove catene montuose e immaginare nuove strade.