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L’editing fotografico

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L’editing fotografico

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L’editing fotografico, in senso lato, è un modo di raccontare storie. 
Che si tratti di pochi scatti per una rivista o di molti per un intero libro, sempre di narrazione si tratta, e come tale lo si può trattare.

La prima e l’ultima

A prescindere da che tipo di fotografia si sceglie di mostrare, un editing fotografico ha dei capisaldi. Il contenuto, la tipologia e il numero di foto totali sono vari e variabili ma ci sono alcuni punti fermi da rispettare.

Il photo-editing è un modo per raccontare una storia e, come ogni storia, deve avere un inizio, una fine e qualcosa in mezzo che conduce alla fine. Una narrazione insomma.

Affinché ciò avvenga e assumendo di avere qualcosa da dire, le foto più importanti di un portfolio sono la prima e l’ultima. Che possa esserlo la prima è abbastanza ovvio, meno che lo debba essere l’ultima. Eppure si tratta di iniziare a raccontare una storia (e quindi di catturare l’attenzione dell’osservatore) e di concluderla. 
Due note importanti:

  1. Il fatto che la prima e l’ultima siano le più importanti non significa che quello che ci sta in mezzo lo sia di meno, anzi. Però la prima dovrebbe già suggerire il tono del racconto o, almeno, essere una porta che si apre su una dimensione diversa da quella reale e corrente dell’osservatore. L’ultima deve invece concludere il racconto e può anche non avere la stessa potenza iconografica o evocativa della prima.
  2. La prima foto non è necessariamente la copertina del portfolio, anzi: si può scegliere di non “bruciarla” per poi doverne scegliere un’altra per la sequenza interna, magari non altrettanto potente visivamente. Si può insomma anche optare per una copertina fatta di solo testo.

Quello che c’è in mezzo

La storia viene narrata da quello che c’è fra la prima e l’ultima foto. Non si tratta di una storia in termini letterali né tantomeno cronologici (una storia ben raccontata non rispetta quasi mai una cronologia rigida ma cambia continuamente tempo narrativo, ma questo è un altro discorso) ma piuttosto di coerenza stilistica e di capacità di narrare qualcosa legando un fotogramma all’altro.

È importante notare che, con molta probabilità, un editing fotografico — specie se stampato — presenta le foto appaiate su diverse pagine o anche in numero maggiore di una per pagina (una pagina può averne una e la pagina precedente o seguente due).

Fra le foto si creano quindi dei legami visivi che l’osservatore attento nota e che devono essere risolti. Una foto non è mai vista da sola, a meno che non venga impaginata con una pagina bianca a fianco (anche la pagina bianca è una nota dell’editing, la si può considerare una pausa per respirare). In altre parole, le foto che appaiono vicine devono parlarsi.

I tipi di legame che si stabiliscono sono diversi. Personalmente considero questi:

  • Cromatismi: foto diverse possono essere legate in sequenza dagli stessi colori o da contrapposizione di colori complementari (blu/rosso è un classico)
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  • Contrasti luminosi: a una foto luminosa dovrebbe seguire una foto scura. O anche: a una sequenza di foto omogenee dal punto di vista della luminosità dovrebbe seguire una foto più scura, in modo da rompere l’omogeneità
  • Geometria/elementi: si tratta dei legami compositivi più sfuggenti ma raffinati. Non vengono colti immediatamente ma, quando succede, danno gioia perché fanno sentire l’osservatore parte attiva della narrazione. “Ho colto il riferimento” gli dice il cervello. Si può trattare di una figura circolare in una foto ripresa da una circonferenza in quella successiva o da una linea d’ombra che ha la stessa inclinazione di una generatrice nella foto vicina. O da un piede in una e qualcosa che lo contiene nella successiva.
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  • Narrazione: una storia può essere raccontata anche con una sequenza ben precisa o un suo cinematismo (nel senso proprio del cinema)

Quello che è importante tenere a mente è che:

un editing fotografico è una sequenza di foto legate fra di loro, non singole foto senza legami e in quanto corpus coerente (e narrativo) deve avere un ritmo e non essere omogeneo.

Per questo ho posto l’accento sui contrasti cromatici, geometrico-compositivi e visivi. L’attenzione dell’osservatore crolla se la narrazione è monocorde, i contrasti servono a dare ritmo, a creare sorpresa, a spiazzare. Il cervello deve continuamente essere stimolato. Il contrasto è un artificio compositivo non solo efficace per mantenere tesa la narrazione ma anche per dare risalto alle singole foto: una foto meno potente può “ricevere luce” funzionando da commento a una più potente, per esempio.

Infine:

un buon editing fotografico non è composto da sole foto belle o buone, anzi. Sarebbe come giocare a calcio con soli attaccanti: farebbero tantissimi goal ma ne subirebbero altrettanti e alla fine perderebbero.

La qualità compositiva e comunicativa delle foto di un editing deve essere vario perché foto bellissime una accanto all’altra si ammazzano a vicenda e si tolgono risalto mentre foto meno potenti diventano interessanti (ancillari, mi viene da dire) di foto più forti, dando a queste ancora più luce. Del resto c’è una bella differenza fra belle foto e buone foto.

Quante foto scegliere?

La risposta più semplice e utile è: quante ne bastano per dire quello che c’è da dire. Quella più articolata considera la soglia di attenzione dell’osservatore.

  • 10–15 (max 20 foto) per un portfolio personale
  • 70–80 (max 100) per un libro, ammesso che si abbiano 100 foto buone e considerato che 100 foto raccontano una storia davvero molto importante
  • 100 foto per una mostra, sempre ammesso di averne 100 davvero buone (niente riempitivi insomma — ho visto ottime mostre fotografiche fatte con 20 foto).

Questi sono numeri indicativi e sono relativi alla qualità del lavoro proposto.
Un’ultima nota che riguarda l’editing destinato a essere stampato: più che il numero totale delle foto mi pare più utile considerare il numero di pagine, tenendo a mente che una pagina può contenere più foto e altre pagine possono essere vuote. Si tratta di narrazione e ritmo, ancora una volta.

Omogeneità

Ho parlato sin qui dell’importanza della variazione e ora parlo di omogeneità? Sì, e non mi sto contraddicendo: la variazione a cui mi riferivo prima è quella compositiva e narrativa mentre per omogeneità intendo quella stilistica. Può trattarsi di omogeneità del trattamento di post-produzione o dei cromatismi (per quanto il bianco e nero possa convivere benissimo con il colore, se scelto con cura) ma lo stile deve essere lo stesso. Un editing è un libro narrato visivamente e, seguendo il parallelo letterario, deve essere narrato da un’unica voce: quella dello scrittore/fotografo. Sarebbe come leggere un libro con capitoli scritti da diversi scrittori con stili individuali differenti: funzionerebbero malissimo insieme.

Su carta o digitale?

Quanto detto fin qui è soprattutto valido per un editing che ha come supporto di destinazione la carta (rivista o libro). Per il digitale il discorso è diverso e le potenzialità altrettanto. Vi sono alcuni tratti comuni che valgono per entrambi ma l’esperienza è diversa: guardare un libro stampato è diverso che vedere una sequenza a monitor.

La cosa più difficile

In genere il photo-editor è un buon fotografo, ma non necessariamente. Può (è, normalmente) una persona con grande cultura visiva e capacità di assemblare immagini, vedendone legami che il loro autore/autrice non riesce magari nemmeno a cogliere. Oltre a queste capacità

è importante che sia una persona diversa dal fotografo perché ha il necessario distacco emotivo dal materiale fotografico. In altre parole: non è affezionato alle foto e le vede come ingranaggi di un meccanismo più grande che è, appunto, la storia da narrare.

Il fotografo è più coinvolto emotivamente e riesce più a malincuore a lasciare fuori una foto dalla sequenza perché le è affezionato e non riesce a valutarla nell’economia della narrazione ma solo per il suo valore individuale. Come visto invece le foto di un editing devono essere valutate complessivamente e non singolarmente.

La cosa più difficile nell’editing è decidere quali foto non usare piuttosto che quali usare.

Cosa conta in definitiva per fare un buon editing fotografico?

  1. Avere delle buone foto
  2. Decidere per quale tipo di narrazione le si vuole usare (cosa si vuol dire)
  3. Decidere quali escludere
  4. Stabilire dei rapporti visivi, cromatici e concettuali fra di loro durante il montaggio (dipendenti anche dal supporto su cui verranno stampate/visualizzate)
  5. Dargli un ritmo, fatto di climax, pause, riprese (tensione/rilascio)
Tutte le immagini sono tratte da:

“I don’t like beautiful pictures” di Martino Pietropoli

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