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Il tempo e il quadro

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Il tempo e il quadro

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La mostra di Courbet a Palazzo Diamanti a Ferrara mi ha fatto pensare alla fotografia digitale e a come consumiamo (letteralmente) le immagini oggi. Ne abbiamo una tale abbondanza che vi dedichiamo pochissimo tempo e soprattutto vi diamo ormai un valore quasi nullo. Ci sono, sono miliardi, non valgono niente.

Ci pensavo cercando di immaginare quanto ci avrà messo nel 1869 Courbet per scegliere quelle 8925 variazioni di rosa antico che vira al ruggine e poi al piombo del cielo o la tonalità di inchiostro che sfuma nel petrolio e nel nero assoluto del mare. L’avrà fatto automaticamente, certo, inseguendo un sentimento e traducendolo visivamente. Dando sostanza a un’immagine mentale magari, chissà. Ma il punto è che puoi tentare di capirlo solo avendo davanti l’originale e dandogli il tempo di mostrarsi, mentre ti rende un po’ del tempo che Courbet ci ha messo a dipingerlo.

Questa è la magia di alcuni quadri: che imprigionano anche il tempo e te lo rendono. Ma devi guardarli dal vero, anche perché — cosa che non tutti sanno — i display sono definitissimi e hanno milioni di colori ma non rendono tutta la gamma di quelli che un supporto fisico riesce a rendere. In altre parole la foto che ne vediamo è mancante di alcuni colori e quindi non è una fedele riproduzione della realtà. Non rende inoltre lo spessore dell’olio e quella certa caratteristica plastica che imprigiona — ancora una volta — il tempo in una sua sostanza fisica.

L’olio è tridimensionale mentre il tempo è monodimensionale, ha una dimensione, è una dimensione. Ma diventa visibile in più dimensioni nell’arte (poche altre cose lo rendono visibile altrimenti, forse solo l’amore o la memoria).

Soprattutto però l’immagine digitale non incorpora il tempo: quello che è richiesto per apprezzare certe cose, quello che impiegò l’artista a dipingerlo e soprattutto quello che ti restituisce.

Guardare meno, guardare meglio, guardare le cose nella loro forma e sostanza originarie.
La foto digitale è come un discorso riferito in terza persona: dà un’idea ma non dice esattamente. E spesso genera confusione.

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