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Frizione

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Frizione

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Mi sono accorto che il mio campo visivo dà forma anche al mio campo mentale. Non so se sia un’esperienza comune: non so se chiunque, chiudendo gli occhi, abbia l’impressione che la propria immaginazione abbia un angolo di visuale simile a quello che avrebbe a occhi aperti. Gli occhi della mente, pensavo, possono vedere quello che vedono quelli del mio corpo. L’esperienza mentale è un modello di quella fisica.

Non ci avevo mai fatto caso fino a quando non ho iniziato a meditare. In quella particolare condizione, chiusi gli occhi, continuavo a vedere (o immaginare) un paesaggio e una scena che aveva molti elementi del reale e anche lo stesso angolo di visuale. Volevo vedere di più e superare quello che consideravo un limite e il limite, in questo caso, ero io stesso.

Il campo visivo dell’occhio, nella vista bioculare, copre un angolo variabile dai 190 ai 220 gradi. Avrei detto di meno ma c’è anche da considerare che quello che vediamo nitidamente è una porzione relativamente ristretta al centro. Nel resto del campo visivo la definizione è meno nitida mentre è acuita la percezione dei movimenti e dei cambi di stato al contorno. È il risultato dell’evoluzione del nostro corpo e quindi anche degli occhi.

Eppure la mente – o almeno la mia – voleva vedere oltre, non essendo vincolata agli occhi se non per l’esperienza percettiva del mondo circostante, che le fa assumere che anche quello interiore sia simile, o leggibile attraverso il cono ottico. Eppure, pensavo, ci deve essere di più, ci deve essere almeno una possibilità.

La prima idea fu di superare il vincolo della vista oculare, che oltre a essere limitata è anche soggettiva. La soggettività, pare banale constatarlo, presuppone l’esistenza di un soggetto osservante, e quindi di un centro di osservazione. Ammesso che si possa giungere a vedere – almeno con la mente – fino a coprire un campo visivo totale di 360°, il vincolo del punto di vista individuale resta. Volevo andare oltre. Volevo uscire dal mio corpo, o almeno voleva riuscirci la mia mente.

A volte, meditando, ci riesco. Mi sollevo e volo verso il cielo e mi vedo laggiù. Ho l’illusione di aver superato i limiti del campo visivo e poi capisco di averli solo spostati in un punto più alto. Sono di nuovo al punto di partenza.

È un problema che non ha soluzione, e forse non è neanche un problema. È un limite, e i limiti definiscono – è la loro ragione d’essere – ma danno anche un valore alle cose. Potrei annullare la soggettività del punto di vista individuale – ammesso sia possibile – assumendo ogni punto di vista, ma negherei anche la natura del punto di vista, che è di essere unico. E di essere limitato dal campo visivo.

Questo ragionamento mi serviva a parlare del tema, che è la frizione, cioè l’impedimento, l’accidente, l’inciampo.

La tesi da cui parto è, lo dico subito, indimostrabile. La tesi è che le frizioni nella vita formano il carattere, o meglio che l’assenza delle frizioni non produrrebbero un organico fiorire delle inclinazioni individuali.

I limiti accentuano i tratti del carattere e lo forgiano; la loro assenza non produrrebbe un risultato altrettanto interessante. Ci si evolve o meno grazie ai limiti. I limiti abilitano e non limitano.

La tesi, dicevo, è indimostrabile perché non è dato sapere che forma assumerebbe una vita priva di qualsiasi costrizione, e non si possono vivere due vite per portare a termine un A/B test.

È poi importante tentare di immaginare come saremmo se non esistessero limiti? A prestar attenzione al dibattito pubblico parrebbe di sì, anche se i limiti sono ormai definiti traumi. Per le nuove generazioni, qualsiasi impedimento o accidente è un trauma. Generalizzo ma si può facilmente capire cosa intendo. Quando tutto ciò che si frappone fra l’individuo e la realizzazione delle sue inclinazioni è considerato un trauma, si finisce per patologizzare la realtà, con la conseguenza che l’individuo è un eterno malato. Il malato ha bisogno di cure continue perché vive in una condizione di cronicizzazione delle proprie patologie. Che non sono endogene bensì esogene: derivano sempre dall’esterno.

La loro soluzione prevederebbe un’azione endogena, ossia una reazione. Lo strumento che, storicamente, governa la reazione alle condizioni ambientali (che costruisce un rapporto fra mente e realtà) è il carattere. Che, non a caso, si dice si formi proprio nello scontro e nella sua risoluzione con la realtà.

Il carattere è insomma in origine un’argilla priva di forma. La realtà sono le mani che la modellano.

Nell’argilla c’è il potenziale ma è solo plasmandola che si rivela la forma che imprigiona. In origine possiamo essere qualsiasi cosa e qualsiasi essere umano – così come l’argilla contiene ogni forma – mentre la forma che assumiamo (che assume l’argilla diventando vaso o statua) è il risultato di un insieme di limiti e costrizioni.

Quindi ho il sospetto che non ci si potrebbe in alcun modo evolvere se non esistessero dei limiti.

Ma esiste un limite diverso dagli altri, uno che non plasma il carattere ma lo definisce completamente: il tempo che abbiamo a disposizione. È questo limite temporale che dà urgenza alle nostre scelte, peso alle nostre decisioni, valore alle nostre relazioni. Senza di esso, tutto sarebbe procrastinabile all’infinito.

Parlo, chiaramente, della morte. L’idea che la vita sia infinita, che la morte possa essere sconfitta, appartiene a chi è al punto più distante da essa: i bambini per innocenza, certi miliardari per presunzione. L’abbondanza di ricchezze può far credere di non essere soggetti alle leggi fisiche, ma è solo un’illusione che allontana dalla costruzione di un rapporto maturo con il nostro limite ultimo.

Nel primo caso si tratta di inconsapevole ignoranza anagrafica, nel secondo di presunzione di non essere limitati. Come se la morte, oltre a essere l’esperienza più naturale dopo la vita e una manciata di fragole (che sono sempre meno naturali) fosse un intralcio, quello supremo che li limita nella loro ricerca di non si sa ben cosa. Per questo, allungando la vita allontanano la morte, che è cosa diversa dall’eliminarla.

Ora, questo non è di certo l’elogio della morte.

La morte c’è, è un portale verso il niente o verso quel che si vuol credere. Comunque è meglio farne qualcosa, non so: chiacchierarci.

È un’interlocutrice alquanto silenziosa. Al più dice “Per me devi passare”. Non è invitante, non sembra aver fretta. Sa già quando ti rivedrà, nel mentre sta nel tuo campo visivo.

Senza volerlo (giuro) ho scritto “campo visivo”. Vedi un po’ a cosa serve la scrittura: se fossi uno di quelli bravi a scrivere, avrei costruito tutto questo pezzo per arrivare circolarmente qui, al punto da dove ero partito. Al campo visivo. A cui si è aggiunto un elemento: la morte. Sta, non visibile ma percepibile. È il limite del campo, è ciò che è concesso vedere. Dopo, oltre, non c’è nulla. O non si sa. Lei è solo un varco, dicevamo. Oddio: è un varco se desse accesso a un’altra dimensione, ma in fondo chi lo sa?

Un varco non è nemmeno un limite, perché può essere superato. La morte è un limite, una soglia: oltre non c’è la vita.

Se non esistesse non ci sarebbero limiti, o ci sarebbe tutto. Nessuna individualità, nessuna forma, nessun punto di vista. Tutto sarebbe presente contemporaneamente e quindi non esisterebbe il tempo. E il tempo è la dimensione più forte della morte perché la contiene: la morte è nel flusso del tempo ma non può interromperlo. La morte odia il tempo.

L’assenza di limiti è la negazione del punto di vista di cui parlavo all’inizio: non averne nessuno – per assurgere a una visione totale, che è poi impossibile – significa averli tutti ma essere tutto significa non essere niente e nessuno in particolare. Non è un caso – mi complimento con il me stesso del passato – che quando ne scrissi definii il processo come quello di una disintegrazione. In effetti perdere la propria individualità per diventare tutto significa tornare a essere polvere cosmica, cioè materialmente morti. O meglio: clinicamente morti, perché materialmente si proseguirebbe a esistere, come polvere cosmica, appunto.

E alla fine ho capito che il campo visivo non è il limite della vista ma è solo – che scoperta! – il limite del visibile. Oltre c’è lo spirito, che non può essere visto ma intuito. Che non può essere spiegato ma percepito.

E non volevo finire a parlar bene della morte, che gode di scarsa simpatia e ha un pessimo ufficio stampa, ma ho pensato se non esistesse, e se tutto fosse uguale e non si sapesse quando tutto finisce, ecco: non so se ne sarei felice.

Ho sentito due raccontare della madre o della nonna, e c’era tutto lì dentro:

— Quanti anni ha adesso?
— 102.
— E come sta?
— Non ne può più.

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