Il Museo Ebraico di Berlino
Con questo museo Daniel Libeskind è diventato una archistar. Come un bestseller si deve leggere anni dopo per veder se merita, l’ho visitato per la prima volta 16 anni dopo la sua inaugurazione
Daniel Libeskind è una vera e propria archistar: oltre ad aver realizzato alcuni degli edifici più importanti e pubblicizzati degli ultimi 20 anni è anche bravissimo— grazie ai suoi libri, alle sue interviste e all’opera di sua moglie — a curare le sue pubbliche relazioni.
Come il più giovane Bjarke Ingels, anche Libeskind è estremamente assertivo nel suo modo di descrivere i propri progetti: mentre Ingels si affida a diagrammi e disegni però, lui predilige la pura parola. Ascoltarlo descrivere i suoi progetti, specie quando ne illustra gli assunti e le linee guida, ha sempre un unico esito: geniale, non c’è altro da fare. Trattandosi di progetti che spesso hanno a che fare con temi più astratti di quelli di cui si occupa Ingels (musei ebraici, musei della Grande Guerra, chiese), la libertà che gli è concessa nello spaziare fra le praterie dell’astrazione pura è infinita. E lui lo sa bene e ci sta a suo agio.
Questa ragazza “ascoltava” uno dei 49 pilastri del Giardino dell’Esilio.
Il Museo Ebraico di Berlino è un progetto fondativo per lui: per molti versi solo lui poteva realizzarlo. Ebreo polacco, figlio di deportati, architetto newyorkese già noto come decostruttivista. Tutto sembrava congiurare a suo favore e così è stato.
Il lampo che ha disegnato è una stella di David scomposta e ricomposta. Le finestre sono tagli obliqui e casuali sulla pelle di zinco che ricopre l’intero edificio e sembrano ferite su un corpo, casuali come casuale può essere la violenza. A Libeskind piace spiegare i suoi progetti attraverso alcuni elementi caratterizzanti: sempre pochi, densi di significato, che possono essere compresi facilmente pur essendo spesso molto astratti.
Gli assi della Continuità e dell’Esilio al primo livello (interrato)
Le finestre oblique e casuali sono ferite; i corridoi al piano interrato (da dove si accede al museo scendendo dal corpo storico — l’estensione infatti non ha alcun accesso dalla strada) sono gli assi della Continuità, dell’Olocausto e dell’Esilio. I vuoti sono simbolici del vuoto della storia degli ebrei di Berlino: un vuoto storico di documenti e testimonianze cancellate dalla furia e dalla violenza nazista. Libeskind voleva espressamente che questi vuoti ci fossero, pur non avendo alcuna funzione espositiva: sono come convitati di pietra, che non possono non essere presenti. Sono grandi spazi a tutta altezza che attraversano i livelli del volume del museo e che si possono vedere da più punti di vista, affacciandosi ai tagli obliqui che sono un po’ ovunque. Il più bel vuoto è sicuramente quello della Memoria: ricoperto dalla straordinaria installazione Shalekhet di 10.000 forme di volti in metallo punzonato, opera di Kadishman, è un’opera d’arte che richiede al visitatore di essere calpestata.
Il vuoto della Memoria con l’installazione Shalekhet di 10.000 forme di volti in metallo punzonato, opera di Kadishman
A ogni passo le formelle stridono fra di loro, suonando come mugugni e lamenti strazianti. Calpestandole ci si sente carnefici eppure anche gli unici che possono dare una voce a quei volti anonimi che guardano il cielo con un’espressione stupefatta e perduta.
Ci sono i corridoi/assi che danno una direzione e una lettura della storia del popolo ebraico. Ci sono i vuoti che sono la memoria della loro tragica storia, cancellata con la violenza. Pur essendo un museo che di tradizionale non ha niente — ma che ha moltissimo di simbolico — Libeskind è riuscito perfettamente a rappresentare la parabola degli ebrei a Berlino, alla cui storia è poi dedicato il resto dell’esposizione.
Visitandolo nel suo insieme sembra però che non tutto funzioni.
Gran parte del museo è straordinaria nell’intuizione e nella realizzazione.
Il giardino dell’Esilio e le sue 49 colonne è un hortus conclusus complicato nella sua ideazione: le colonne sono inclinate, il pavimento pure, le ombre degli olivagni piantati in sommità confondono i volti di chi lo percorre. L’esperienza è quella di smarrirsi, perdendo i punti di riferimento cartesiano: eppure la sensazione è di grande pace e calma consapevole.
Giardino dell’Esilio
Il vuoto a cui conduce l’asse dell’Olocausto è una camera stretta e alta 24 metri che prende luce da un’unica fessura in alto. Non c’è niente, se non il tepore d’estate e il freddo d’inverno. E i rumori attutiti che vengono dalla strada, appena là fuori. Senti tutto ma nessuno ti può sentire.
Ci sei ma nessuno si accorge di te. Sei dimenticato, come l’Olocausto non è mai stato riconosciuto e ancora alcuni folli non vogliono riconoscere.
Torre dell’Olocausto
Questi elementi fortemente simbolici e magistralmente realizzati dovrebbero preparare il visitatore alla scoperta della storia degli ebrei di Berlino che è ospitata nei piani superiori. Ci si sente carichi di aspettative dopo aver vissuto queste esperienze che avvicinano e preparano l’animo alla comprensione del dramma di un popolo. Eppure è come se Libeskind dopo quest’opera perfetta non avesse più avuto voglia di curarsi di altro: le sale superiori sono quel che risulta quando si creano volumi complicati illuminati da tagli casuali: spazi che non hanno niente di piacevole e che non vorrebbero nemmeno essere spiacevoli (per creare un qualche disagio calcolato). Sono solo spazi allestiti con un’esposizione permanente mal disegnata e con un’estetica che non c’entra niente col resto. Come se Libeskind non se ne fosse curato o se ne fosse disinteressato
Le brutte gallerie ai piani fuori terra in cui viene illustrata la storia degli ebrei berlinesi
Quel che emerge del Museo — questo lampo di zinco tormentato da impietosi squarci — non contiene niente o poco di interessante al suo interno se non bacheche mal disegnate, soffitti solcati da linee e luci ossessive nella loro disposizione disordinata, scritte e didascalie poco coordinate.
Ti viene solo voglia di uscire al più presto e di riguardare ancora qualche minuto dalla strada quest’opera: perfetta in molte sue parti, imperfetta e inconclusa in tante altre.
Quando Libeskind deve evocare un pensiero e farlo vivere nello spazio trova le parole. Quando deve raccontare il dettaglio della storia del suo popolo ci riesce meno.
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