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Nella mia ignoranza ho sempre pensato che i sei concerti Brandeburghesi di Bach fossero per clavicembalo e orchestra. Riascoltandoli con attenzione dal vivo ho dovuto ammettere che il clavicembalo c’era eccome, ma era uno degli strumenti con cui vengono eseguiti. È fondamentale ma non è il solista.

Nell’era della soglia di attenzione pari a quella di un criceto addormentato temevo anche che non sarei stato in grado di affrontare l’ascolto dell’integrale: sei concerti di musica composta più di 300 anni fa (304, per la precisione), per un totale di più di due ore di musica.

Alla fine avrei voluto che continuassero ancora qualche ora, mentre pensavo che quando l’universo imploderà fra qualche miliardo di anni, la musica di Bach continuerà a essere udita per l’eternità. Non so da chi, ma ci sarà, ne sono certo.

Confesso: ho una certa predilezione per lui.

Questi Brandeburghesi mi hanno anche portato a pormi una domanda: la mia soglia di attenzione è davvero diminuita o mi cibo (intellettualmente) di crocchette invece che di sostanziosi cibi?

Mi trovo a pensarci ogni volta che leggo un libro per un’ora di fila, senza sentire alcuna urgenza di controllare quale piega delirante ha preso il mondo nel frattempo.

I libri si aprono come porte, ho scritto altrove, e un motivo ci sarà. Ogni volta che ne apro uno, ci entro, non resto sulla superficie. “Sono altrove” dovrei appuntare sul mio corpo, da qualche parte visibile, per avvisare che non ci sono. Torno presto.

Forse, insomma, il problema è trovare qualcosa che impieghi la mente a lungo, o più a lungo di quanto ci si impieghi a leggere un post o a vedere una foto, pescate dal flusso ininterrotto (non a caso: stream) di cose importanti per evitare di sentirsi esclusi dal discorso pubblico. Di per sé transeunte ed effimero.

Ho iniziato a chiamare queste unità di informazione “crocchette di pensiero”. Rende bene la loro modesta entità: modesta sia in termini nutritivi che dimensionali. Siamo diventati cani che mangiano crocchette per sapere cosa è successo nel frattempo. Tiriamo fuori la testa dal flusso delle cose per vedere cosa galleggia di fianco a noi.

A proposito di cani: il nuovo libro del notevole Mark Rowlands si chiama “Filosofia del cane” e conferma una mia teoria: che i cani siano, appunto, animali filosofici. Rowlands aggiunge un dettaglio importante: non sanno di esserlo, o non sanno cosa sia la filosofia.

Il suo discorso si lega magicamente (ma niente è casuale) a un altro libro che sto leggendo: “Modi di essere” di James Bridle, che non è facilmente riassumibile, o forse sì: cerca di dare una risposta a una domanda per niente peregrina, tipo “E se l’intelligenza umana fosse solo un tipo di intelligenza, e nemmeno il più evoluto?”

Circa, non la formula proprio così ma la risposta breve è: no. Ci sono molti diversi tipi di intelligenza, solo che noi umani pensiamo di essere gli unici a esserne dotati, forse per il fatto non trascurabile di aver dominato il globo. Il che ci renderebbe semmai indirettamente intelligenti, non di certo in modo assoluto. Ci renderebbe insomma forse i più protervi e presuntuosi, più violenti semmai e convinti che la nostra intelligenza sia la sola degna di questo nome.

Del resto, come diceva Emo Philips:

Pensavo che il cervello fosse l’organo più meraviglioso del mio corpo. Poi ho capito chi me lo stava dicendo.

Insomma: dicevo del fiume in cui siamo immersi e mi confortavo a constatare che esistono ancora libri e concerti di 300 anni fa che riescono a deviare la nostra mente e a impadronirsene per qualche ora. Il sogno di qualsiasi media: sequestrare l’attenzione.

Bach continua a riuscirci, un buon libro altrettanto. Allora mi sono detto che non è che la soglia di attenzione sia diminuita, ma è calata l’esposizione a cose buone e nutrienti. Quello che vediamo/leggiamo/ascoltiamo ogni giorno evidentemente non lo è, perché poi arriva Bach e riordina le priorità, catturando una mente ridotta ormai a seguire i pensieri come un pastore che tenta di riportare all’ordine le sue pecore. Che, dispettose, sfuggono in ogni direzione.

Il problema è il framing, il contesto. Nella dieta informativa proposta dai social – che non si può trascurare dato che è ormai la principale per moltissimi di noi, direi la stragrande maggioranza – non esiste un framing o ne esistono molti e diversi. Decisi in parte in maniera spontanea (come è spontaneo l’emergere di un meme rispetto ad altri 100) o controllata, attraverso la narrazione decisa dal potere, sia quello politico che mediatico.

Il medium era il messaggio. Ora il messaggio è medio, poiché la frammentazione dei messaggi sulle piattaforme porta matematicamente all’affermarsi della medietà. I valori medi sono i più numerosi, e Gauss e la sua campana hanno ancora ragione.

Noi tutti stiamo lì, nei valori più elevati della gaussiana, quella più popolata. All’interno di essa si formano isole in cui l’informazione si concentra: è dove si affollano le diverse narrazioni di cui parlavo, quelle che tutti commentiamo, che tutti leggiamo, quelle con cui siamo d’accordo o meno. Le sparate di Trump, le polemiche del giorno, quelle cose lì.

Della narrazione ne parlo da tempo.

Il futuro ha la forma del pensiero presente, cioè pensando uno o più futuri possibili, si aumentano le possibilità che questi accadano, dato che le energie creative trovano sfogo verso una o più direzioni.

Pensare è anche creare un futuro.

Non avevo mai pensato che le narrazioni avvengono all’interno, appunto, di un framing, o di un contesto, per dirla all’italiana.

Me ne sono accorto guardando un video del bravissimo comedian Bill Burr. Non conta di cosa parlasse ma conta che, come un’epifania, mi ha fatto capire l’importanza del framing. Ogni suo spettacolo – e come lui, quelli di altri bravissimi comedian – si compone di unità che hanno strutture ben definite:

Contesto (framing) + esempi + esposizione delle incongruenze

Il contesto/framing serve a stabilire le regole di ingaggio, il perimetro all’interno del quale le battute funzionano, gli esempi sollecitano l’identificazione del pubblico, l’esposizione delle incongruenze serve a portare il pubblico di fronte alla battuta. Si attua con un duplice processo di accettazione del contesto e di capitolazione di fronte all’evidenza, del tipo “Se avete riso per quello, allora dovete anche ridere per questo”. Il meccanismo non funzionerebbe se mancasse il framing.

C’è un famoso numero di Louis C.K. che spiega molto bene quello che voglio dire. Potrei chiamarlo del “Of course, but maybe”. Louis C.K. propone due esempi antitetici: il primo è di buon senso e il secondo lo sfida, dimostrando l’inganno mentale: se il pubblico è d’accordo sul primo, dovrebbe esserlo anche sul secondo.

Questo dialogo funziona perché lui ha dato delle regole e il pubblico, ascoltandolo e ridendo, ha acconsentito. Poco alla volta gli esempi sono sempre più estremi, e non ci si può più tirare indietro. Il sistema richiede che si stabilisca una connessione, e il comedian sembra alludere esplicitamente a una domanda a cui il pubblico risponde positivamente anche solo ridendo. La domanda è “Siete d’accordo con me, vero?”.

Il framing consiste insomma nello stabilire delle regole, nel definire i confini e poi nel costruire l’edificio delle battute all’interno di quei confini. Definire i margini, accordarsi (implicitamente, senza doverlo dire) ad accettare un certo sistema di pensiero è un modo molto efficace di “delivering the jokes” che i comedian usano.

Se ci si fa caso è trasversale: i più bravi, consciamente o meno (sospetto più la prima, magari senza neanche pensarci) lo usano. Tracciano un cerchio magico all’interno del quale tutto accade e dove si attua il patto fra comedian e pubblico. Lì dentro succede tutto, lì dentro si può ridere di tutto.

È una forma di pensiero per niente banale questa, e no, non sono solo battute.

Come un buon numero di un comedian, anche un concerto di Bach stabilisce un contesto. I linguaggi sono diversi e i sei concerti Brandeburghesi non fanno per niente ridere (sono sublimi, direi piuttosto). Però tutte le opere d’arte degne di questo nome creano un mondo. Nel caso dei comedian forse si tratta di un’interpretazione condivisa del mondo più che di un altro mondo vero e proprio ma in entrambi i casi ci sono delle regole. Quelle della parola, della musica, del segno o della luce. Quelle degli strumenti di ogni linguaggio, insomma.

Il che riporta all’inizio, più o meno: ci alimentiamo con i messaggi e le informazioni e le conoscenze. C’è un’estrema differenza fra di loro e oggi scegliamo di mangiare più informazioni che conoscenze. Le informazioni e i messaggi sono i segnali che riceviamo dall’ambiente e che ci relegano nella nostra animalità: li ascoltiamo per capire se c’è pericolo e vi rispondiamo istintivamente. L’elaborazione mentale a cui li sottoponiamo è elementare: risponde alla domanda ancestrale “Avendo ricevuto queste informazioni, sono o meno in pericolo di vita?”

Alimentarsi con una dieta di sole informazioni significa alimentare solo lo stress poiché richiede una continua risposta alla domanda “Sono spacciato o meno?”

La conoscenza è l’organizzazione delle informazioni, è la loro collocazione in un sistema di significati frutto di un’elaborazione più raffinata. Avere informazioni significa acquisire dati grezzi, avere conoscenza significa elaborarli.

Il livello successivo è la saggezza: informazione è cosa, conoscenza è come, saggezza è quando (usare la conoscenza).

Lo spiegava benissimo il calciatore Brian O’Driscoll che, in un’intervista, fece questo esempio:

Knowledge is knowing that a tomato is a fruit, wisdom is not putting it in a fruit salad.

Oggi siamo sovrastati, schiacciati, annichiliti dall’informazione. Questa è davvero l’era dell’informazione e purtroppo non sappiamo cosa farcene, se non alimentare uno stress che ci brucia come una fornace vorace e spietata.

Non sono ottimista sulla diffusione delle conoscenze (costa fatica apprenderle, a scuola le chiamano “competenze”), figuriamoci sulla saggezza. Sembra molto più diffusa la capacità di sfruttare la nostra ipersensibilità alle informazioni che si attua gettando ogni giorno svariati ossi ai cani, cioè noi.

Resta la scelta che, individualmente, si può fare. Si tratta di una dieta, in fondo: continuare a mangiare quello che fa male con l’illusione che ci protegga dal pericolo o scegliere qualcosa di più sano?

Bisogna esercitare il muscolo cerebrale, e non è esperienza comune. Oppure bisogna abbandonarsi alle regole di un mondo creato da un artista. Bisogna accettare che Bach possa manipolare spazio e tempo di fronte ai nostri occhi e alle nostre orecchie, distorcendolo, stirandolo, dilatandolo e contraendolo. Fino a far sembrare sei concerti e due ore di orologio un battito di ciglia che contiene un’eternità.

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