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Autoistruzione

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Autoistruzione

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Anni fa iniziai a suonare il piano. Ogni sabato andavo da un maestro che aveva un duplice compito: insegnarmi la musica e la tecnica e soprattutto assistere con un sorriso beato e una pazienza inscalfibile allo violenza che facevo alla musica. Ero davvero un incapace totale e, dato che ho smesso, lo sono ancora. Ma potrei pure essere peggiorato, non è mai detto. 

Questo non per dire che lui non fosse un ottimo maestro o che, peggio, i maestri non servano a niente, anzi: in alcuni casi sono fondamentali. Senza di loro non si potrebbe nemmeno pensare di provare a tentare di avvicinarsi all’idea di imparare qualcosa di nuovo. Specie quando una disciplina ha un’importante componente tecnica, è necessaria la guida di chi è capace e sa trasferire la conoscenza.

Io invece sono stato per tutta la vita un autodidatta, e temo che continuerò a esserlo, per necessità e per piacere. 

Avevo 13 anni quando iniziai a fotografare. Mio padre mi prestò una sua vecchia Nikkormat. Mi insegnò le basi della fotografia e poi imparai il resto da me. Gli inglesi lo chiamano “learning by doing”, cioè “imparare facendo” e io applicai questo principio quando ancora non sapevo neanche l’inglese. Ho sempre trovato che imparare le cose con l’autoistruzione abbia una qualità superiore, anche se forse ho trascurato un dettaglio: funziona solo con le cose che interessano, perché il fattore determinante in questo tipo di istruzione è la motivazione. In altre parole ho sempre imparato da solo a fare cose che mi interessavano. 

Il che ha anche una sua logica: le cose che non ti interessano non le impari nemmeno quando a spiegartele c’è qualcuno di competente, figurarsi quando devi sbrigartela da te. Eppure non sapevo spiegarmi perché non riuscissi a imparare a suonare il pianoforte: mi piaceva l’idea e lo strumento e ho sempre desiderato saper leggere la musica. La adoro e ne ascolto moltissima e ho sempre sentito come una grave carenza non capirne il linguaggio. Mi è sempre sembrato di perdermi qualcosa e ho sempre guardato ammirato chi sa parlare con competenza di ottave e di armoniche e di cromatismi. Il linguaggio della musica – come si chiama? Musicologia? Non quindi le note in sé ma la descrizione della musica – ha una natura ibrida: descrive un linguaggio con il linguaggio della parola. Quello musicale è di per sé un linguaggio, che può essere ampliato da un altro linguaggio, cioè quello delle parole. La musica ha insomma almeno due linguaggi che la definiscono: i segni (sul pentagramma) e le parole.

Ma sto divagando. La verità è che volevo solo leggere ed eseguire la musica e invece il mio spirito autodidatta, almeno in questo caso, non mi ha aiutato. 

Dopo la fotografia ho imparato a sviluppare e stampare le mie foto. Avevo un vecchio ingranditore di mio padre e avevo allestito in un bagno la camera oscura. Stampavo in bianco e nero. Stavo 2/3 ore chiuso in questo bagno senza alcuna ventilazione e ne uscivo con dei mal di testa fenomenali. Imparai che la post produzione è nata con la fotografia stessa e che buona parte dei comandi di Photoshop derivano da tecniche di stampa che si sono sempre usate. Imparai che la manipolazione di una foto – almeno entro certi limiti – non è mistificazione ma serve piuttosto all’esigenza espressiva: serve a trovare ed esprimere la voce del fotografo, cioè la sua visione del mondo.

L’autoistruzione ha diversi vantaggi e altrettanti svantaggi. Partirei da questi ultimi, anche perché volti in positivo, si traducono in vantaggi.

Lentezza

Avventurarsi nell’autoistruzione significa mettere in conto moltissime ore di studio e pratica. La strada non è tracciata o ne è visibile solo l’inizio: qualche libro, qualche sito, almeno all’inizio. Ci si avventura lungo un percorso di cui si vedono i primi metri e che si rivelerà solo strada facendo. 

Si imparano però la pazienza e la determinazione, e il valore delle gratificazioni minime. Il progresso che si compie – se lo si compie – ha misure più brevi dei passi di un bambino che impara a camminare, eppure ogni centimetro guadagnato lungo la strada della conoscenza è fonte di grande soddisfazione. 

Il dono più grande però è quello del valore della pazienza. Specie oggi, quando ormai siamo tutti abituati e intossicati dalle gratificazioni istantanee, sapere che ne esistono di difficile e lunga conquista può scoraggiare ma anche sfidare. 

Fatica

Legata alla lentezza, ne è la sorella: si procede con lentezza perché si fa fatica. Entrambe sono legate alla ricerca. La conoscenza e la pratica si illuminano poco alla volta, dando luce al percorso. La ricerca è la scoperta della mappa che conduce alla conoscenza.

Dispersione

Lungo il percorso si aprono diverse strade e a volte ci si perde. Non è facile capire se una conduce all’obiettivo della ricerca e allora la si segue, per scoprire solo dopo che non porta da nessuna parte o porta da tutt’altra parte. Rispetto alla ricerca principale, queste deviazioni sono perdite di tempo ma non lo sono – o non necessariamente – in termini assoluti. Disperdere tempo ed energie porta a trovare curiosi e alternativi percorsi, magari promettenti per altre ricerche, magari utili per vedere la strada principale da un punto di vista diverso.

Ogni aspetto dell’autoistruzione si è rivelato in qualche modo utile dal punto di vista esistenziale: mi ha insegnato la pazienza, l’indipendenza critica e di giudizio e la capacità di affrontare quelli che definisco “carotaggi di conoscenza”: si tratta di individuare un punto in cui si è certi vi sia materiale interessante ed eseguire un carotaggio, cioè andare in profondità, estraendo poi il campione del terreno analizzato: in genere contiene strati e sedimentazioni di conoscenze pregresse, oltre a essere una capsula temporale che conserva in profondità le conoscenze più antiche, fino alle più recenti.

Il tempo vi è imprigionato, e il tempo – a ben vedere – è la spina dorsale dell’autoistruzione: ne è richiesto assai ma si lascia trasformare in profondità di conoscenza.

Naturalmente non applico l’autoistruzione a qualsiasi ambito: ve ne sono che conosco solo superficialmente e altri che ignoro totalmente (dovrei inserire fra questi il pianoforte) ma è il metodo che conta. L’atteggiamento di chi vuole conoscere con le proprie forze rende più indipendenti, anche perché si unisce all’orgoglio della scoperta delle cose. 

Non so se dipenda da una sostanziale diffidenza verso gli altri. Come dicevo, in alcuni casi i maestri sono necessari, specie nella trasmissione della cultura tecnica e manuale. 

Autoistruirsi è l’esito di un’inclinazione caratteriale ma anche di fattori ambientali: non aver mai avuto maestri notevoli, per esempio, spinge le persone curiose a indagare indipendentemente.

La curiosità è la più grande risorsa. Alimentata dalla necessità di capire e di trovare riferimenti e spiegazioni, si basa su uno strato di costante insoddisfazione positiva, che cioè non si trasforma in frustrazione ma anzi, in stimolo per cercare sempre altrove.

Chi ha bisogno di capire trova sempre il modo di riuscirci perché non comprendere è un tarlo impossibile da ignorare.

Perché si sente la necessità di capire e approfondire? Credo si tratti di una forma di dipendenza positiva dalla soddisfazione che si trae dal constatare i progressi fatti lungo la linea della conoscenza. Poche altre cose gratificano a tal punto la mente come conoscere nuove strade, cambiare panorama, posare i propri occhi sull’ignoto e renderlo giorno dopo giorno sempre un po’ più familiare. Per poi posarsi su altri territori inesplorati e puntare in quella direzione.

Si finisce spesso fuori strada, si incontrano molte vie senza uscita, si fatica moltissimo, eppure si viene ricompensati con la constatazione che, ogni giorno, è stata fatta un altro poco di strada. Perché il vero peccato è restare immobili e il grande dono è andare comunque avanti, collezionando errori e fallimenti, imparando a conviverci, diventandoci amici. Senza purtroppo imparare a suonare il pianoforte, ma quello è un altro discorso.

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