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Vuoto

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Vuoto

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Guardo la valigia: ho fatto una discreta opera di ingegneria, ogni vuoto è occupato, tutto è pieno, sono prossimo alla creazione di un nuovo materiale ultracompresso, ultrapesante, una specie di buco nero portatile.

Non ci sta nient’altro, miracolosamente si chiude, penso alla soddisfazione che il cervello sperimenta ogni volta che tutto è concluso, quando qualcosa ha una fine, non necessariamente positiva o negativa (ovviamente la conclusione delle cose positive è più difficile da accettare) ma insomma, quando c’è un punto fermo da ammirare. Qui finisce qualcosa, qualcos’altro può iniziare da qui in poi ma per ora questa cosa finisce qui.

Le valigie ben fatte sono storie con una fine e non dico che la mente voglia correre alla conclusione della storia e vedere come finisce (in fondo la bellezza di una storia è quel che c’è in mezzo) ma dico che ne ha piacere. Anche se poi dopo certe storie si è inseguiti da un velo di tristezza che parte dalla loro fine.

Comunque. Il vuoto è il negativo del positivo, e quindi, per estensione, è negativo. Quantomeno lo è nella nostra cultura. Le ore vuote, le case vuote, gli uffici vuoti, i frigoriferi vuoti. Non a caso si chiama horror vacui, abbiamo terrore di tutto ciò che contiene vuoti, vogliamo riempierli, forse pensiamo che il diavolo viva lì, in luoghi ampi o stretti ma interstiziali che abbiamo lasciato incustoditi, che non abbiamo riempito. Mettere cose, occupare spazio e tempo dev’essere il modo che ci siamo inventati per combattere e sconfiggere il diavolo: non gli lasciamo spazio, quindi non può tentarci e possederci.

Nella grafica il vuoto è il bianco, è lo spazio, è il dominio di ciò che non riceve inchiostro. È il negativo del positivo in quanto a occupazione del supporto: non c’è niente di stampato nel vuoto, quindi è l’opposto della porzione stampata.

In questo ambito nessuno però si sognerebbe di dire che il vuoto sia negativo, né tantomeno che sia da evitare, per quanto possibile. Il vuoto grafico è funzionale al pieno grafico e nessuno dei due potrebbe esistere senza l’altro. Oppure: entrambi potrebbero esistere indipendentemente ma si tradurrebbero in un pieno totale (pienamente illeggibile per l’affastellamento, la concentrazione e l’eccessiva prossimità degli oggetti grafici fra di loro) o in un vuoto insignificante e isolato: in una pagina bianca.

In grafica il vuoto è anche uno spazio, perché le due dimensioni della grafica hanno bisogno di una terza dimensione, e allora lo trasformano in uno spazio.

Non esisterebbe vuoto se non esistesse pieno. Ci sono cose che non esistono in assoluto ma solo in relazione con altre cose. Molte cose in realtà, persino Dio (sempre per chi ci crede) ha una tensione drammatica più interessante perché c’è il diavolo. Se esistesse solo Dio non ci sarebbe alcuna dinamica evolutiva della storia, nessun pathos: ci sarebbe solo la noia.

Dio ha creato il diavolo per annoiare di meno, da buon drammaturgo capiva bene che serviva una figura antagonista.

Ultimamente ascolto sempre la stessa musica: ascolto sempre e solo Bach, in particolare le Partite e qualche volta le variazioni Goldberg. Forse sto sviluppando (ho già sviluppato) una forma di ossessione per quelle composizioni. Trovo che vadano sempre bene, in qualunque circostanza: che io corra, cammini, cucini o scriva, si adattano perfettamente.

Per me sono enigmi irrisolti e irrisolvibili, quindi le ascolto per cercare di capirli, beandomi nel frattempo di quelle note. Dato che sono irrisolvibili, sono come una storia ben congegnata e con un finale non risolto. Le Partite o le Variazioni non arrivano mai al punto: le Variazioni in particolare – per loro stessa natura – si concludono perché Bach decise di concluderle ma quante variazioni sono possibili di un tema sonoro? Infinite, appunto.

Bach e la musica che ha scritto sono una mia ossessione, dicevo. Lo sono perché si tratta di storie non concluse e anche perché contengono il vuoto: musicalmente il vuoto sono le pause.

Ogni nota deve essere eseguita distintamente dalle altre che la precedono e la seguono, e a rendere possibile che una nota abbia un inizio e una fine non è la nota stessa ma ciò che viene prima e dopo di lei, e cioè il vuoto, il silenzio, la pausa fra l’una e l’altra. Si tratta di pause che il più delle volte sfuggono e che vengono registrate dal cervello come un unico suono ma esistono, anche perché nessuno strumento può eseguire una nota ininterrottamente – deve concedersi delle pause – e, ammesso che ne esista uno, lo può fare solo per una sola nota: qualora ne suonasse un’altra ci sarebbe una pausa.

Al vuoto e al silenzio (cioè alla pausa sonora) si associano sempre valori negativi mentre hanno semmai caratteristiche opposte ai loro contrari, ma questo non basta a definirli negativamente.

Positivo e negativo sono anzi un’ossessione della cultura occidentale mentre quella orientale tributa il giusto riconoscimento al vuoto, a ciò che è diverso dal suo opposto perché non è il suo opposto. Il vuoto non è il pieno ma non per questo un giapponese si sognerebbe di definirlo con disprezzo, basti pensare alle loro case tradizionali e a quanto il vuoto sia in esse più importante del pieno (il pieno, in quel caso, contiene il vuoto, è il pieno insomma a esistere in funzione del vuoto e non viceversa).

Ricordavo una citazione di Miles Davis sulle pause ma forse non era nemmeno sua e comunque non la trovo. Ne ho trovata invece una molto interessante, sempre sua. Dice:

Don’t play what’s there, play what’s not there.

Chiaramente non dice di suonare le pause fra una nota e l’altra – per quanto pure quelle, in un certo senso, siano suonate – parla della scrittura musicale e invita a non suonare quello che c’è scritto ma quello che non c’è scritto.

Mi pare il perfetto invito a suonare il vuoto o a elogiarlo, almeno. A portarlo in vita e farlo vibrare o a renderlo visibile.

Ecco: il bianco, l’assenza, ciò che non è stampato, sono la forma visibile del vuoto. Se non ci fossero non ci sarebbero il pieno, la musica, la vita.

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