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Miopia 

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Miopia 

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Stavo correndo e quando corro non porto gli occhiali. Ero all’interno di un luogo di cui non sospettavo l’esistenza. Mi ci ero trovato per caso, attratto dalla sua architettura la cui funzione non riuscivo a spiegarmi. Era il tunnel Sant’Anna (Sint-Annatunnel) ad Anversa. Si tratta di un tunnel che attraversa a 30 metri di profondità la Schelda. Un ponte sotterraneo, se esistesse questo genere di cose.

Non conoscendolo, non sapevo quanto fosse lungo (572,28 metri, per la precisione), né ne vedevo la fine. Ero all’interno di un tubo che mi attraeva verso l’estremità opposta dalla quale ci ero entrato, perché una volta che ci ero entrato volevo scoprire dove portava. Non avevo gli occhiali, dicevo, quindi anche il più remoto indizio della fine del medesimo tunnel mi era negato: poteva proseguire per qualche chilometro o solo per qualche altro metro.

Sono miope, quindi non vedo bene da lontano mentre vedo decentemente da vicino.

Senza occhiali non vedo: intuisco. Intuire la fine di un tunnel nella mia condizione è ancora più improbabile, specie quando da quell’estremità non penetra neanche la luce. A 30 metri di terra non ne arriva alcuna.

Che poi: sapere che ne mancavano 400 o 4.000 avrebbe poi cambiato qualcosa? Un tunnel non è per definizione misurabile: è uguale a se stesso in ogni sua parte. Prima è un oggetto fisico e poi è un oggetto filosofico: identico alla sua interezza e alle sue parti.

Ovviamente non ci pensavo correndoci dentro. Pensavo piuttosto a capire dove e come finiva e pensavo alla mia miopia.

Se un tunnel può essere un oggetto filosofico, perché anche la miopia non potrebbe avere a che fare con la filosofia? In realtà mentre correvo non vi pensavo in termini così filosofici ma piuttosto esistenziali.

Sono miope da quando ho imparato a leggere. Ho distrutto tutte le foto che mi ritraggono a sei anni in prima elementare con una montatura che mi faceva assomigliare a un giovane Andreotti ma quella immagine si è impressa a fuoco nella mia memoria: la miopia mi ha accompagnato per quasi tutta la vita, di certo a partire da quando avevo più bisogno di veder chiaro un oggetto posto a una certa distanza, cioè la lavagna.

Qualche decina di anni dopo quella foto mi trovo a correre in un tunnel a migliaia di chilometri da quella classe in quella scuola e a pensare che la mia miopia è la più longeva compagna di vita che io abbia mai avuto, anche se non è una persona e non me la sono scelta. Gli amici te li scegli e i compagni di classe e di vita li selezioni ma lei no, lei mi è toccata.

Allora mi sono chiesto cosa mi ha permesso di vedere, o come ha distorto la mia visione e infine in che modo ha condizionato la mia vita.

Non intendo l’impiccio di dover portare da sempre gli occhiali – ormai non mi ci vedo neppure più senza – quanto fino a che punto e se l’essere miope abbia modificato la mia visione delle cose, e della vita, per estensione.

Potrei iniziare a rispondere a questa domanda ponendomene un’altra, e cioè: è un bene vedere tutto nitidamente? Se fai il pilota di caccia decisamente sì, ma io ho dovuto rinunciarvi all’età di – appunto – sei anni. Lo feci con una toccante lettera al Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica del tempo, dicendomi costernato e affranto di non poter offrire i miei servigi alla Patria al momento opportuno. Non mi rispose mai.

Naturalmente non lo feci ma già allora amavo abbastanza l’ironia da esserne capace. Purtroppo ero troppo impegnato a fare i conti con la mia nuova e inattesa identità di giovane Andreotti. Una carriera nell’aeronautica stroncata sul nascere e una pericolosa somiglianza con un politico potentissimo già stavano minando la mia personalità, prima ancora che si fosse formata.

Il bello della miopia è che ti porta a pensare che niente sia definito.

Avrei dovuto aspettare solo poco più di 40 anni per capire che dono mi aveva fatto quel difetto di vista: non vedere nitidamente lascia spazio all’immaginazione. Il potere della mente è pari solo alla sua volontà di colmare ogni dettaglio indefinito con una sua plausibile rappresentazione: io non vedevo – io non vedo – nitidamente ma immagino molto nitidamente.

Lo spazio dell’immaginazione è elastico e gassoso: tende a riempire ogni vuoto e a saturare le informazioni ricevute dal mondo esterno. Quello che mancava alla lettura della realtà l’ho sempre immaginato. Se, al contrario, avessi sempre avuto una visione chiara delle cose, sospetto che non avrei mai allenato con tanta pervicacia la mia immaginazione e sarei stato alla fine molto meno creativo.

Perché si crea, in definitiva? Per la necessità di lasciare una testimonianza e di esprimere un’idea, per il bisogno di togliersi dalla mente una forma del possibile, certamente. E non solo: io credo che si crei anche per colmare di senso ciò che non ha contorni. Dato che non ho mai visto bene, ho sviluppato la capacità di immaginare bene. Dovevo colmare un vuoto di significato, dovevo dare una forma alla realtà: ne avevo bisogno.

Allora sono giunto a questa conclusione: lo spazio dell’immaginazione è lo spazio delle possibilità, e le possibilità sono le configurazioni del reale che non hanno preso forma reale ma che possono germogliare nella mente. In quanto possibilità, potrebbe prendere vita o no, ma possono esistere in uno stato mentale.

Si potrebbe pensare che abbia sovracompensato la mia scarsa vista con un elaborato ragionamento filosofico e può anche essere. Però credo che ci sia un seme di verità in questo ragionamento: se non vedi, immagini. La visione dell’immaginazione è più complessa di quella degli occhi perché non registra uno stato di fatto ma crea uno stato del possibile.

Come nel tunnel Sant’Anna, in cui non ho visto la fine perché non potevo vederla ma l’ho immaginata. E immaginandola ho capito il senso e il dono della mia miopia: non vedere bene da lontano per vedere meglio le vibrazioni del reale e la loro capacità di creare possibili scenari alternativi.

Potrei spingermi anche oltre, dicendo che il vedere più dimensioni alternative (possibili) lascia intuire che la realtà visibile è una configurazione delle infinite possibili. Quindi chi ne immagina altre riesce a vedere uno spazio a più dimensioni e, con esso, toglie veli alla realtà tangibile e ne scopre di altre. Che chi vede bene non sospetta esistano perché ne vede nitidamente e subito una sola.

In quel tunnel ho visto contemporaneamente più fini possibili e mentre ci correvo ho capito a cosa mi è sempre servito non vedere bene: a non pensare che esiste una sola configurazione del reale e quindi una sola possibilità. A pensare che quello che si vede più nitidamente è una soluzione che cela tutte le altre infinite e possibili.

Se fisso un punto all’orizzonte lo vedo vibrare. Ne vedo forse la sua natura atomica, le sue infinite configurazioni: ciò che è e ciò che potrebbe essere e ciò che non sarà mai. Vedo il tempo e non solo lo spazio, perché le possibilità prendono una forma metafisica e visibile ma la realtà ha solo un’immagine: quella che non ho mai visto benissimo. E allora me ne sono immaginate altre, e, con esse, le loro storie.

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