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Rumore

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Rumore

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L’esatto opposto del rumore è il silenzio, l’assenza di rumore appunto. Non ho mai sperimentato molto il silenzio, è difficile farlo perché ogni cosa è rumorosa, ogni persona, ogni oggetto, tutto pare avere l’urgenza di dirti che c’è, che esiste e allora si fa sentire. 

Un bel silenzio c’era durante la pandemia: forse è l’unico buon ricordo di un periodo che stiamo tutti rimuovendo con grande soddisfazione, per ovvi motivi. Ma quel silenzio lo ricordo perché era il primo e aveva una qualità sopraffina: non era assenza di rumore o suoni quanto amplificazione di quelli che non si sentono mai perché sono coperti da altri, rumorosi, protervi, prevaricanti. 

Quello era il rumore di fondo della realtà, quando si toglie tutto il resto. 

Si poteva sentire un uccello che non avevo mai udito prima. Il suo canto portava con sé la fantasia che appartenesse a qualche specie esotica: non cantava come nessun altro uccello ed emetteva un suono artificiale, come di un allarme di qualche casa. Ma non era un allarme. Lo si sentiva soprattutto di notte e aveva un’unica nota che sosteneva per poco tempo. Poi taceva (forse ascoltava anche lui il silenzio), e poi riprendeva il suo canto. 

Nel sovvertimento della realtà che era divenuto così reale in quel tempo, che là fuori ci fossero uccelli provenienti da qualche paese nel centro dell’Africa era confortante e congruente: era tutto così strano che pareva un adeguato riconoscimento che meritavamo ancora qualcosa, persino che un uccello che non vedevamo ma che potevamo sentire si fosse accampato da queste parti. 

Lo si poteva solo sentire e mai vedere, quindi la fantasia compensava immaginandolo colorato e gagliardo, perché se fosse stato come un lugubre corvo l’affronto sarebbe stato insopportabile.

Il rumore è una categoria molto più ampia della sua definizione in termini acustici. Ci sono così tanti tipi di rumore che quello sonoro rischia di essere in netta minoranza: c’è quello elettromagnetico, quello luminoso, quello dei sensori delle macchine fotografiche, quello visivo. 

Il rumore si può insomma vedere, non solo ascoltare. 

C’è anche il rumore informativo, che fiorisce soprattutto in rete. Da questo mi sto sempre più allontanando. Non assolve alcuna funzione, non informa, eccita e basta, senza alcun controllo o limite. Si annida nei social e nei giornali e lo immagino come una colonia dantesca di dannati che gridano e si agitano per attirare l’attenzione su di loro e le loro miserie. 

Questo rumore disturba il pensiero, chiede attenzione, distrae. Eppure riuscire a ragionare anche con molto rumore di fondo può essere un buon allenamento, un po’ come navigare con un mare in tempesta. Con la bonaccia tutti son capaci ma con un mare che ti urla contro solo pochi riescono a portare la barca in un porto sicuro. Il porto sicuro in questo caso è il culmine di un ragionamento, è l’esito della capacità di ragionare anche in mezzo al caos.

Ne faccio una questione di elaborazione del pensiero perché questo rumore di fondo esiste in quel dominio: è fatto di opinioni, racconti, immagini e parole, quindi usa gli stessi materiali. Non arriva però mai alla risoluzione, all’elaborazione del pensiero. Sono frammenti e mugugni mentali che, a volervi trovare un paragone elevato, assomigliano ai pensieri delle persone che gli angeli de Il cielo sopra Berlino riuscivano a percepire. Da quando esistono i social sentiamo i pensieri di tutti, siamo diventati quegli angeli. Ma non siamo angeli e non possiamo farci carico di vite altrui, possiamo solo percepirle come rumore.

All’università non ascoltavo gli altri appelli. Non volevo essere influenzato, non volevo condizionarmi a pensare che un orale fallito da un collega fosse un’anteprima di quanto mi aspettava. Senza molto calcolo ne stavo alla larga: non vedevo alcuna utilità nel pensare che quello che accadeva a un’altra persona potesse anticipare quello che sarebbe accaduto a me. 

Per questo ho sempre avuto distacco dalla conversazione pubblica – dal chiacchiericcio social. Non dico di non averlo mai osservato ma avervi partecipato no, o rarissimamente. Diciamo che ho sempre usato i social per iniettarmi – consapevolmente o meno – delle dosi di disturbo, perché il rumore in definitiva è questo: disturbo della percezione. Magari mi sono illuso di restarne inerme, magari mi ha condizionato, eppure ne ho sempre avuto un rapporto sano, nel senso che l’ho considerato un mondo diverso da quello reale, o almeno come un mondo reale (l’online è reale) ma con regole diverse. C’era comunque sempre stato e c’è tuttora tantissimo rumore e da questo rumore mi accorgo di fuggire sempre di più. Il Pensiero Lungo è una risposta al rumore, è un modo per obbligarmi ogni settimana a ragionare su un solo tema e a scriverne, in sessioni che assorbono la mia mente e non lasciano entrare altro. La scrittura lunga di un pensiero lungo è una terapia e ha delle regole: non ammette distrazioni e consiste in un tuffo che cerca la profondità.

Il che non significa che avvenga in un silenzio altrettanto profondo. La musica che scelgo quando scrivo non è casuale. Dovrei meglio dire “l’ambiente sonoro” perché non è detto che io ascolti musica. A volte scrivo nel silenzio della notte, altre volte ascolto Bach, altre ancora la techno. Quest’ultima funziona come un filtro: è così sgradevole musicalmente che non vi si è attratti, non la si segue; è però così ripetitiva e primitiva da avere qualcosa di rassicurante. Dopo ogni clangore sai che ne arriverà un altro, pressapoco alla stessa distanza (musicale). Sembra un paradosso ma ha qualcosa di confortante e alla fine si fa dimenticare. Diventa il famoso “tappeto sonoro”.

Poi ho letto uno scritto di Silvio Castelletti e ho capito – anche se parla di tutt’altro – che il rumore e come me lo somministro ha a che fare con l’identità. Lui scrive: 

I refused to let any one of these (supposedly) big things take too much space in my identity container. They’re in there, undeniably — I am Italian and I do haveliberal political views and I am a fan of Inter Milan, after all. But, in the grand scheme of things of who I am, I decided they would be minor. I convinced myself that I wouldn’t wage a war to defend them, and I started to continuously test and reevaluate them to see whether they should stay or go. At the root of it all there’s a simple belief: nothing’s carved out in stone; given enough convincing evidence, I eagerly change my mind. 

Lui chiama identità le etichette che ci troviamo addosso – il lavoro, le passioni, gli impegni, gli errori – e io le chiamo rumore. Servono a definirci ma non dicono cosa e chi siamo. Dicono a cosa assomigliamo, a quale animale sociale – nel senso di quale abito sociale possiamo indossare per essere riconoscibili agli altri – ma non ci raccontano, o almeno non del tutto. Già il fatto che ne possiamo avere svariate fa intuire quanto poco esaustive siano dal punto di vista descrittivo.

Ciò e chi siamo davvero è una materia che si impiega una vita a studiare, e a volte non basta mai. Credo anzi che non abbia fine perché se sapessimo davvero chi e cosa siamo verrebbe meno l’elemento di curiosità, ci troveremmo annoiati di noi stessi. Al mattino ci guarderemmo allo specchio e ci diremmo “Oddio, ancora tu”.

Invece si cambia in continuazione, o quantomeno lo fanno le persone interessanti. Non cambiano per il gusto di farlo o per la moda, cambiano perché si stanno cercando.

Le identità sociali sono insomma il rumore, e la sua presenza evidenzia l’importanza del silenzio.

Il silenzio è quel che resta quanto si sottrae il rumore e resta solo la voce delle cose. Pensiamo che l’identità sia un accumulo di esperienze e di aggettivi che ci definiscono e invece è il tutto meno il superfluo, è quel che resta.

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