Title

Cinquanta

Excerpt

Date

Cinquanta

Text

A questo punto, a cinquant’anni, è arrivato il momento di scrivere quello che rimando di scrivere da molti mesi, forse anni: qualcosa sul tempo. Non è un caso che lo rimandi perché per scriverne dovrei averne capito qualcosa e invece ne capisco sempre meno, pur essendo questa la mia più lunga speculazione.

Ho davanti almeno due strade: tentare di scriverne o arrendermi e ammettere che non lo capirò mai. Posso capirlo dal punto di vista oggettivo, scientifico, ontologico, posso misurarlo e maledirlo, aggirarlo e subirlo ma non lo capirò mai dal punto di vista filosofico ed esistenziale. Allora non resta – o almeno a me non resta – altro che accettarlo.

Accettare potrebbe essere il mantra per i prossimi anni. Sono arrivato a 50 e lo dico come se fossi arrivato in un luogo o a una tappa, ma è chiaro che è l’abitudine o la preparazione a questo momento a decretare l’importanza di questa data più che la data in sé.

Ho 50 anni e non ho capito molto di più di qualsiasi altra cosa, come se a 50 avessi dovuto trovare una carta in una giacca che non usavo da anni con una spiegazione chiara e lineare del senso di tutto ciò.

No: accettazione, si diceva.

Accettare non è un’azione passiva ma è una forma di saggezza, ecco, questo l’ho capito. Invecchiare è forse un’illuminazione che finalmente rende più evidente tutto. Non direi, e di certo il minuto prima della mezzanotte dell’ultimo giorno in cui avevo 49 anni e il primo minuto dopo non è cambiato niente, come era prevedibile che fosse.

Sto ascoltando il Quartetto Nr 10 Op. 74 di Ludwig van Beethoven e penso che non è cambiato: lo amo esattamente come la prima volta che lo ascoltai. Parlando di costanti nella vita bisognerebbe pensare più a cose così: un quartetto che opera come un chirurgo ogni volta che lo ascolti: ti apre il cuore e controlla che le emozioni siano al loro posto. Dà loro aria e le lascia libere di vedere la luce.

Approssimandomi ai 50 ho pensato e scritto che, molto serenamente, per gli anni che avevo di fronte avrei voluto fare una sola cosa, o almeno provarci: imparare a morire. Non perché senta la fine vicina – diomio, come sarebbe presuntuoso invecchiare e pensare una cosa così banale – ma perché è più vicina della mia nascita. Un po’ di logica non guasta a volte, soprattutto se c’è da pianificare qualcosa. Lo dice uno che è un disastro a pianificare o che lo fa nascondendolo a se stesso: così bene che non so neanche con vaghezza dove sono diretto. Chi potrebbe mai saperlo, del resto? Almeno lo ammetto, anche se ho il sospetto che la mia mente sappia qualcosa che non vuole rivelarmi, e mi fa seguire un percorso invisibile. Lei collega fatti e oggetti, suggestioni e conoscenze ma non mi dice perché. Abbiamo questo rapporto, ormai c’ho fatto l’abitudine.

I quartetti di Beethoven invece sono scogli nel mare dell’esistenza: affiorano sempre, stanno per millenni testardamente in quei punti. L’acqua può aver levigato la loro superficie ma non ha alterato la forma: torno a nuoto su quegli scogli e ne riconosco la sagoma e l’asperità. Loro sono, loro stanno, loro non mutano.

“Alleggerirsi”, ecco a cosa penso: inizio questa nuova fase (nuova almeno numericamente) pensando più a quello di cui mi voglio liberare piuttosto che a quello che vorrei avere. E penso a quello che ho, ovviamente.

Le cose ti possiedono, si dice. Il corollario è che bisognerebbe scegliere con cura le cose che possiedi perché rivelano molto di te. Sei quello che mangi ma sei anche quello che possiedi. Quello che possiedi non lo puoi portare con te, dopo. Puoi goderne qui ma è saggio lasciarlo in custodia a chi resta. Allora penso sempre più a liberarmi delle cose.

Ogni volta che preparo una valigia non penso a ciò che vorrei portare ma a ciò che non mi dispiace lasciare dietro. Mi chiedo di cosa ho davvero bisogno. Di cosa ho bisogno, davvero? “Di poco peso”. Dell’essenziale, che è ciò che resta quando evapora tutto il resto. Quando preparo la valigia mi compiaccio di quanto poco posso portare con me e di quanto posso lasciare indietro. Viaggiare leggeri è un modo per godersi il viaggio. Le cose che ci portiamo dietro sono cose di cui poi dobbiamo occuparci: dove ho messo quella maglia? Dov’è l’orologio? Dove ho lasciato la macchina? Troppe cose, ce ne vogliono meno.

Quindi mi è venuta questa idea: che se invecchiare significa diventare saggi, allora la saggezza è l’arte di lasciare un po’ tutto, di liberarsi, di ammettere non solo che non si è capito niente ma anche che non importa, che va benissimo così. Lascio che restino nella memoria gli affetti, i quartetti di archi, i libri. Che poi, se ci pensi, sono le cose o le persone che hanno viaggiato con te.

Guardo il cursore lampeggiare. Dovrei scrivere ancora? Potrei? Forse sì ma voglio alleggerirmi anche di quello: del dover dire, del voler per forza specificare, dettagliare, perfezionare.

Ho ripetuto molte volte in questi mesi la parola “vapore”. È tutto ciò che sta attorno a qualcosa, è la forma invisibile o intuibile dell’anima delle cose. Non si può dire a parole ma la si percepisce. È lo spazio indefinito, è un’espansione del senso e della vita.

Quel vapore non si può descrivere ma dice come stiamo in questo piano del reale, come ci stanno le cose. È lo spazio delle non parole, dell’essere. Eppure è vapore.

Lo lascio qui, come spazio, alla fine. Eccolo.

Il viaggio continua.

Tags

Altri articoli

Contrario

E se camminare al contrario fosse una buona idea?

Macchia

Ho fatto molta fatica a non chiamarlo “131 – Fiat”, ma solo chi ha una certa età può capire

Filo

Tutto mi ha condotto qui e da qui tutto procede.

IT