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Contrario

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Contrario

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5, 27 e 68. Sono le percentuali, rispettivamente di materia visibile, materia oscura ed energia oscura, che compongono l’universo. Quello che possiamo, ragionevolmente, definire “tutto”. Del tutto, insomma, il 95% è oscuro. La materia e l’energia non sono oscure in senso morale né sinistro: il linguaggio è così potente da farle apparire come forze o presenze antagoniste o malefiche ma in questo caso significa solo che non le si conosce, perché non le si può vedere. Se ne vedono gli effetti ma non le cause, che sono intuite, supposte, immaginate. 

Il contrario delle cose è, ancora in termini fisici o linguistici, il loro opposto. Chiaro e scuro, bello e brutto, buono e cattivo. A queste categorie assegnamo una proporzione implicita del 50%: il contrario è la “forza” opposta, o almeno qualcosa che è, appunto, il contrario di qualcosa appena menzionato. 

La non-materia però non è il 50% di tutto, ma – assieme all’energia oscura – è il 95%. Eppure ci scervelliamo solo o spesso unicamente sul 5%, trascurando il restante, o pensando che il 5% sia il 50%.

Pensavo al vuoto mentre guardavo una vecchia porta della mia città e le case attorno e tutti i pieni e i mattoni e i muri e le auto e gli alberi e pensavo che non pensiamo – o almeno io non ci penso spesso – ai vuoti. 

Se avesse un sindacato, il vuoto pretenderebbe giustamente il rispetto dei propri diritti. Quantomeno di essere riconosciuto per la sua importanza. 

Si bada alle case e alle cose perché sono fatte di materia e le possiamo vedere e toccare e possedere mentre si pensa relativamente o per niente al vuoto, all’aria, alla trasparenza. Si dà per scontato che la loro ragione d’essere sia l’assenza, o una presenza trascurabile: c’è, esiste, ma non può essere posseduta, quindi non interessa molto. Eppure i contrari legittimano i loro opposti. Il vuoto legittima il pieno, la materia legittima la non-materia, e così via. 

L’idea del contrario in verità nasce da una suggestione: quella di cercare di pensare più al contrario delle cose, o di esercitarsi almeno a farlo. È un esercizio che qualcuno – lo leggevo – propone di fare. Non chiedersi il perché di una cosa ma il suo contrario, ed eventualmente confutarlo. Diceva “Non chiedersi perché esiste la povertà ma perché esiste la ricchezza”. È un ottimo principio da applicare anche a se stessi, per esempio: non chiedersi perché si detesta una persona ma chiedersi perché non la si ama. Può aiutare a capire che ciò che si detesta negli altri è ciò che si teme di scoprire in se stessi, è quella materia oscura di cui è fatta la nostra anima di cui si preferisce ingorare l’esistenza. Ma divago.

Interrogarsi in questi termini è faticoso ma ha il pregio di condurre su strade non battute, per pigrizia o perché si è sempre fatto così. Un po’ coincide col contestare ogni conoscenza non per partito preso, ma piuttosto per metterne alla prova il fondamento. Pensare al contrario di qualcosa insomma aiuta a decidere della bontà o meno del suo opposto, o del diritto (come lo si può definire altrimenti?).

Le cose sono definite da loro stesse e dal loro contrario. Gli attributi delle cose, anche. Eppure c’è una materia – quello che definiremmo il vuoto, o la non-materia, il non-essere – che è altrettanto importante. 

Ci pensavo leggendo Stefan Zweig. Le sue sublimi descrizioni psicologiche, la sua capacità di creare mondi attraverso minuziose descrizioni. Nei suoi racconti succedono pochissime cose e tutto quello che succede accade nella mente dei suoi protagonisti. Ci pensavo, dicevo, in relazione all’Ai. E uno penserà “Cosa mai c’entra l’Ai adesso?”. C’entra eccome, o almeno c’entra una sua applicazione, che è quella della sintesi. Nell’impeto iperproduttivo di questi anni non stupisce che sia uno dei suoi utilizzi più diffusi: farle dire l’essenza delle cose, tagliare tutto il resto. Non c’è tempo per i dettagli, vogliamo la sostanza, o almeno ci accontentiamo di credere che stia tutto lì: nella sintesi. 

La sintesi è pratica, è veloce, ottimizza, non c’è dubbio. Ma annienta il 95% delle parole. Con ciò non voglio dire che gran parte di ciò che viene scritto oggi non sia in effetti altrettanto comunicabile per il suo solo 5% (lo è, molto spesso) ma cosa rimarrebbe dei racconti di Zweig se li leggesse un’Ai? Accadono pochissime cose eppure in quel 95% c’è il tutto. Il senso di quei racconti sta in ciò che non si vede (anche se si può leggere) e non in ciò che accade, che è poca cosa, alla fine. 

Quel vuoto, quel contrasto, quel ciò che non è la sostanza dell’azione, quel vapore – come amo chiamarlo – dà il senso a tutto. 

Quindi è un contrario non nel senso di essere opposto a ma nel senso di diverso da, di diversa natura.

Il 5% è il dominio dell’utile, della materia. È ciò che si può possedere perché lo si vede. È il piano su cui opera l’economia: della finanza, delle relazioni, dei sentimenti. Una transazione in cui la merce è esplicita e ha un valore e un valore può solo essere monetario, dato che la moneta si esprime con i numeri. La matematica diventa reale quando è transazione economica. 

Non so: mi chiedo se non abbiamo dato troppa importanza a quel 5% del senso del tutto. Se ignorare il 95% restante sia intelligente o utile, ma non utile in termini economici: per una volta, “utile” in termini umani, esistenziali. 

Se a Zweig si toglie quel 95% di affabulazione psicologica si toglie tutto, il 5% che resta non è interessante o sono storie comuni che finirebbero per non essere nemmeno notate. Quel che importa è quel che non si vede, è la non-materia delle cose.

Il 68% di quel 95% è energia oscura. Forze che agiscono e muovono intere galassie, facendo respirare l’universo. Contrazione e dilatazione, stelle che esplodono, orizzonti degli eventi, buchi neri, un coagulo cosmico di tutto ciò che non possiamo ancora capire. 

Quando medito vado in quel 95%.
Quando leggo Zweig sento parlare quel 95%.
Quando dipingo esploro la porzione del 95% che contengo.

L’arte è l’esito delle incursioni in quel 95%. Gli artisti sono esploratori che riportano da quella dimensione frammenti e immagini di ciò che non si può vedere. E lo fanno vedere. 

Poi l’economia dà un valore a quei frammenti o non ne dà alcuno. Decide di apprezzare o ignorare a seconda di calcoli banalmente pratici. 

Bisognerebbe considerare il valore economico delle cose e delle persone come l’aspetto meno interessante, o di certo non il più importante. Nella società corrente è tutto, nell’ordine delle cose è irrilevante. Le ricchezze materiali sono indifferenti al cosmo e alla vastità dell’universo. Hanno senso solo nella finitezza delle menti umane. Sono utili, certo, ma niente più. 

L’universo è fatto del 95% di qualcosa che non si conosce. Si può immaginarlo come un abisso infinito dentro cui cadere e perdersi o come un’immensa possibilità di espansione.

Pensando a ciò che non si vede delle cose e delle persone, al resto, a ciò che sta oltre il 5%. Che non è solo il contrario o il vapore o il vuoto: è il tutto.

Vedere ciò che non si può vedere, o cercare, almeno. Immaginare che c’è sempre qualcosa di altro e diverso e infinitamente più grande. Partendo dal non vedere le cose in sé ma tutto ciò che sta loro attorno. Che è immenso e arriva ai confini dell’universo.

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