Mi giro e cerco il filo. È attaccato al mio corpo ed è collegato a tutti i miei Io passati. Mi ripeto spesso che, adesso, sono nel punto dove tutte le mie scelte mi hanno condotto. Influenzato o meno, condizionato o meno, dipendente o indipendente, qui sono e qui ho voluto essere. Quindi, se solo potessi percorrere a ritroso questo filo immaginario, potrei ritrovare un senso, ammesso che esista.
In fondo cerchiamo sempre un senso, non solo perché vogliamo capire o per trovare una spiegazione ma anche per intuire quale direzione prendere, come procedere oltre. Il filo però si attorciglia, scompare, non si tende, non lo vedo. Ogni tanto è teso e brillante: molti fili connettono i libri che ho letto e che leggerò. Ho scelto di leggerli perché altri libri me li suggerivano.
Quando non ne leggo per un po’ è un consiglio di un amico o una voce sentita distrattamente a suggerirmene uno e, quasi immancabilmente, in quel libro trovo il capo per il libro successivo. Ho letto più libri consigliati da altri libri, o altri ancora che avevano letto gli autori di altri libri ancora di quanti ne abbia scoperti senza che vi fosse un nesso con un precedente libro. Tutto è collegato ma spesso è difficile vedere questi legami. Ha importanza, poi?
Ho maturato un’idea sulle modalità con cui mi informo: è come ascoltare una radio AM. Il più delle volte restituisce rumori e suoni incomprensibili. Non sono parole o sono solo echi, borgorigmi, fruscii. Altre volte carpisco qualche parola. Non mi sto informando: cerco indizi.
Viviamo nell’era dell’informazione e ne capiamo sempre meno. Viviamo nell’era dell’eccesso dell’informazione, o dell’informazione di scarsa qualità, sarebbe meglio dire. Quando mi informo non capisco meglio niente. A un certo punto spengo la radio (spengo i social, i giornali, i media, i podcast) perché mi pare di non capirci più niente. Ma la sostanza resta: non voglio essere informato, io voglio trovare indizi. Voglio capire.
Gli indizi sono entità che fanno risuonare qualcosa. È come trovare in un mazzo di numerosissime chiavi quella che apre una porta. Dà accesso a una stanza in cui c’è un’altra porta. Allora devo cercare un’altra chiave, e ricomincio da capo. Non so dove conducano le stanze ma so solo che una stanza conduce a un’altra stanza. A volte la stanza è un libro, a volte è un frammento di discorso, a volte un quadro, a volte un albero in mezzo alla campagna, mezzo cancellato dalla nebbia.
Sto componendo un puzzle che ha un infinito numero di pezzi, quindi non lo completerò mai. Un giorno non avrò più tempo di andare avanti. Posso solo vedere quale immagine si compone, anche se è incompleta. Allora mi fermo e salgo su una scala immaginaria così posso vederlo dall’alto. In alcune sue parti vedo ricomparire quel filo. Lo sento, anche se non lo vedo.
Tutto mi ha condotto qui e da qui tutto procede.
Ogni mattino apro gli occhi ed esco dal sogno. Anche nel sogno c’è un filo: sono le immagini ricorrenti. È così difficile interpretarle. Tutto nei sogni è metaforico ma qui, in questa veglia, posso creare le metafore; nei sogni posso solo vederle, sognarle, vivere. Le subisco e non le capisco, o posso solo interpretarle.
Nei sogni le metafore si invertono: non le invento, sono inventato da loro.
Eppure i sogni sono legati alla realtà, anche se non so se ne sono speculari. La elaborano, la negano, la invertono? Non lo so.
C’è una dimensione che è reale eppure metafisica. Partecipa della materia dei sogni ma non è evocata in quella dimensione. È il surreale. Io lo descrivo come ciò che sta appena oltre il velo della realtà. È reale perché esiste in questa dimensione ma non è visibile. È solo percepibile.
Mi ritorna in mente Montale in Mattino d’inverno:
Forse un mattino andando in un’aria di vetro, arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo: il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro di me, con un terrore di ubriaco.
Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto alberi case colli per l’inganno consueto. Ma sarà troppo tardi; ed io me ne andrò zitto tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.
È la percezione che quanto vedo sia proiettato su uno schermo, un’illusione, un tacito accordo fra tutti. Fingiamo di credere di vedere la stessa cosa e la chiamiamo realtà.
Oltre, dicevo, c’è il surreale che è un altro strato di significato. Non è il sogno ma non è neanche la realtà. Forse è la sembianza del sogno in questa dimensione, chissà.
Nel surreale non c’è bisogno di cercare il filo perché la fisica non c’entra, l’azione non è il precursore di una reazione, la gravità toglie peso invece che caricarlo. Non è nemmeno tutto invertito: tutto è diverso.
Nel surreale tutto è magico, irrazionale, colorato.
Allora mi confesso che non cerco il filo, non cerco di capire, non cerco un senso. Voglio solo aver sempre la percezione che esiste un’altra dimensione oltre questa. Altre possibilità, altre fisiche, un’altra razionalità che collega cause ed effetti.
Ho seguito un filo e mi ha condotto a un punto in cui metto in dubbio la necessità del filo stesso. Trovare dove origina e dove conduce è rassicurante ma ora il filo è arrivato sin qui, come un compagno di viaggio. Mi dice che posso procedere senza di lui: ormai ho capito che la sua funzione è collegare eventi e cose e ricordi, senza spiegare niente alla fine.
Non c’è una spiegazione, c’è solo azione: andare avanti, andare oltre. Dimenticarsi del filo, ricordarsi di camminare. Oltre.