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Quel che resta

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Quel che resta

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Fra tutti i pensieri lunghi – assieme a quello sulla morte – quello sul senso della vita ha analogo momento e potenza. Qual è il motivo e lo scopo della nostra vita?
Naturalmente non lo so. Il grande George Carlin ne dava una spiegazione intelligente e perfettamente autoreferenziale (o autoreferenziata):

Il senso della vita è la vita stessa.

Potrebbe sembrare una spiegazione semplice, incompleta o anche perfidamente intellettuale ma contiene alcune o tutte le verità. Una delle quali è che il senso della vita non può che essere contenuto dalla vita stessa. Può quindi significare – in un atteggiamento squisitamente fatalista – che il disegno esistenziale esula dalla nostra volontà e che questa si svolge comunque indipendentemente dalla direzione che le diamo. La vità è quindi un’identità, si autodetermina, è ciò che deve comunque essere e ciò che era previsto e destino fosse. La saggezza sta nell’accettarla.

Un altro possibile approccio definisce il senso della vita in ciò che lasciamo. La nostra eredità – in particolare quella affettiva e intellettuale – è infatti il peso della nostra vita, il suo senso. Se il senso è l’esito di una costruzione esistenziale, la forma che ha l’edificio morale e intellettuale che ergiamo è il senso stesso della vita. Il nostro scopo è lasciare qualcosa e l’ironia – o il genio – di questa lettura è che costruiamo qualcosa di cui non possiamo godere quando il suo disegno e la sua essenza saranno evidenti, cioè alla fine della nostra vita.
Se infatti il senso è quel che rimane di noi – il ricordo, l’affetto, il lascito intellettuale (per una volta lasciamo stare quello economico, se c’è poi), allora costruiamo ciò che lasciamo e ciò di cui non potremmo godere. Una beffa, ma solo da un punto di vista, e cioè quello egoistico. Se si abbandona questa visione e si costruisce un’esistenza per accumulare ciò di cui non si godrà ma di cui godranno gli altri, allora si supera l’egoismo.

Ci pensavo in queste ultime settimane assistendo al riverbero di due morti scollegate fra di loro: quella di Piero Angela e quella di un ex-compagno di università. Del primo ho scritto che “alla fine ci ha spiegato anche come si fa a morire” e mi pare che riassuma il suo anelito didattico perfettamente, dato che dopo averci spiegato per decenni le cose di scienza e di natura, alla fine ci ha dato una lezione su come morire e cosa lasciare: un buon sapore in bocca, un bel ricordo, una mancanza profonda compensata dalla ricchezza intellettuale che ci aveva donato in vita.

L’altra vita – o meglio, l’altra morte – che mi ha ricordato quella di Angela è stata quella di un mio coetaneo. Non sapevo stesse male, non ne sapevo niente. Come ormai succede, specie con chi non si ha rapporti continuativi, l’ho saputo casualmente da Facebook. Nel tentativo di capire cosa fosse successo e se avessi inteso bene, ho scorso le decine di messaggi commossi di amici e sono stato riempito da un sentimento di dolore ma soprattutto di gratitudine e gioia per cosa aveva significato vivere anche nella vita di questa persona, per così tante persone.
E allora mi sono detto che anche quello era il senso della vita, cioè alla fine, ancora una volta, quel che si lascia, quel che resta e se è un senso così potente di amore, una gioia commovente alla fine, allora un senso molto chiaro c’è.

Una delle cose che ho letto in un libro di cui ho già parlato – e cioè “Come cambiare la tua mente” di Michael Pollan – è il modo in cui molto spesso chi ha esperienze con sostanze allucinogene parla del viaggio fatto. Non avendo parole sufficienti a descriverlo, molti dicono che alla fine la cosa gli è apparsa chiara in tutta la sua potenza e ineluttabilità: il senso ultimo è l’amore, l’unica energia è l’amore, tutti partecipiamo di un’unica sostanza che è fatta d’amore.
Quel che può sembrare una spiegazione decisamente new age ha invece un senso più profondo: in parte legato al fatto che quel genere di esperienze – per ammissione di molti che le hanno vissute – non può essere reso con il nostro linguaggio, e allora la cosa che ne può dare un’idea è l’Amore come sentimento totalizzante; in altra parte legato a una dimensione che è prelogica, precedente al linguaggio e, come tale, non esprimibile a parole. Una dimensione che può essere quindi ascrivibile all’Amore.

Il senso della vita non è quindi esprimibile né comunicabile (è pre-logico, come è anche giusto che sia) e ha una dimensione più universale di quella umana, tanto da non essere contenibile nei suoi egoismi e nelle sue piccolezze.
Il senso della vita di Angela o di Alessio è quel che han lasciato: il profumo di un ricordo, un oggetto delicato che ci han lasciato in mano senza dirci cosa fosse, un’esplosione di amore nel sentire e nel leggere come sono stati salutati. E il paradosso finale è che non sapranno mai cosa è restato di loro. Possono averlo intuito, perché hanno vissuto sapendo che quello importava lasciare, che così era importante vivere. Con amore, alla fine.

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