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Bellezza

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“Un giorno mi sono svegliato e mi sono guardato allo specchio. Era una cosa che facevo ogni giorno fino al giorno prima e non mi trovavo mai particolarmente diverso: mi sembrava di avere un po’ sempre la stessa età. Quel giorno invece pensai fra me e me terrorizzato a cosa mi era successo improvvisamente: avevo la faccia di un pesce che aveva nuotato troppo vicino agli scarichi di una centrale nucleare”.

Queste parole, che potrebbero sembrare l’inizio de La Metamorfosi di Kafka aggiornato ai tempi correnti, sono di Scott Galloway. Non importa dire qui chi è e cosa fa nella vita. Importano le parole in sé. Sono ironiche e mi fanno sempre molto ridere ma, a ben pensarci, anche la situazione di dislocamento fisico in cui si trovò un giorno il Gregor Samsa di Kafka era molto ironica.

L’ironia non è gentile, l’ironia è spietata. Ma si veste di un sorriso.

Oggi abbiamo un rapporto strano con il corpo. Lo veneriamo o ne siamo terrorizzati. Lo curiamo o lo trascuriamo. Lo dimentichiamo, molto spesso, almeno finché non ci duole in qualche sua parte. Eppure il corpo ci fa muovere nello spazio tridimensionale a cui diamo – forse frettolosamente – il nome di realtà. Dovremmo tributargli l’importanza che ha e invece ne abbiamo spesso un rapporto schizofrenico: lo esibiamo o lo nascondiamo, ce ne sentiamo rappresentati o non ci riconosciamo in esso.

Non è, spesso, un rapporto sano: quando l’immagine che ne abbiamo collima con la realtà mentale ne siamo compiaciuti o pensiamo che abbia fatto il suo lavoro – in fondo lo abbiamo nutrito e fatto muovere, di cosa può lamentarsi? – mentre lo allontaniamo o non vogliamo vederlo quando immagine e realtà si dissociano. Il corpo è una proiezione della mente, è la forma che essa crede di avere. Quando lo specchio restituisce l’immagine di un pesce che ha nuotato troppo vicino allo scarico di una centrale nucleare non siamo più sicuri dell’appartenenza di quel volto: cosa è successo? Cosa mi è successo?

Niente e tutto: è passato il tempo e ha fatto quello che doveva fare.

Jia Tolentino è una scrittrice statunitense e autrice del New Yorker. Ha coniato un termine: con “Instagram Face” ha definito un tipo di volto che le capitava di vedere sempre più spesso scorrendo fra i vari post. Lo descrive come un viso caratterizzato da pelle senza pori, zigomi alti e pieni, occhi a mandorla, ciglia lunghe, naso piccolo e labbra carnose. È “distintamente bianco ma etnicamente ambiguo”, nel senso che è una miscela di diverse etnie senza rappresentarne nessuna in particolare.

È un volto specialmente femminile che mi capita di vedere sempre più spesso e che mi ha portato a non distinguerne più nessuno in particolare: mi pare di vedere sempre la stessa faccia. È disorientante e interessante, come assistere a un sogno lucido in cui le identità sono azzerate ed esiste solo un unico fenotipo. È un po’ come trovarsi di fronte a qualcuno ma anche a nessuno in particolare.

Si tratta inoltre di un fenotipo immutabile, nel senso che supera il concetto del tempo, negandolo. È un volto che non invecchia né ringiovanisce: è congelato in un eterno presente che non evolve e quindi non può essere segnato da rughe, macchie, mutazioni particolari.

Il sogno della bellezza contemporanea è di assomigliare a qualcuno che non esiste, o a un tipo assoluto e universale. Non esiste nella realtà ma esiste nelle infinite sue reiterazioni: tutte digitali, tutte sintetiche, tutte perfettamente replicabili e indistinguibili.

Inutile specificare che realizza una condizione in cui l’identità non esiste più: essere uguali a milioni di altri e, a loro volta, uguali a un ideale estetico che aderisce perfettamente a un archetipo sintetico, significa negare le imperfezioni e gli accidenti. Gli inciampi del tempo e la scrittura della realtà, visto da un altro punto di osservazione.

Aspirare a un ideale estetico tradisce un’insicurezza di fondo: quella di non sapere nemmeno chi si è, che quindi rende incapaci di realizzare la condizione esistenziale dell’identità: assomigliare almeno a se stessi.

Questo ideale coincide con il concetto di bellezza corrente: è una bellezza condivisa poiché acriticamente accettata come tale, ma è anche definita dall’assenza di imperfezioni. La bellezza, e mi ripeto avendolo già detto mille volte, è noiosa. Anzi, mi correggo: la perfezione è noiosa.

Sono inciampato in un errore piuttosto comune: confondere bellezza e perfezione, che sono invece due cose diverse. La perfezione è l’assenza di difetti (ed è un costrutto immutabile) mentre la bellezza è un costrutto sociale e antropologico e cambia nel tempo. Nel Rinascimento, per dire, piaceva la donna pasciuta perché era simbolo di ricchezza e prosperità mentre oggi piace quella longilinea o moderatamente generosa di forme. Non si tratta di un giudizio morale né estetico questo: è una constatazione e basta.

Se la bellezza e la perfezione fossero delle storie, la prima sarebbe interessante perché varia e propone colpi di scena (ciò che è bello oggi non lo sarà più domani) mentre la seconda sarebbe noiosissima. Nella storia della perfezione non succede mai niente. Infatti non è una storia ma un concetto immutabile, come dicevamo.

Ciò che è imperfetto – ciò che non è perfettamente perfetto – allude invece a una storia, cioè a un oggetto mentale che si dipana in un prima e un dopo. L’imperfezione non è un difetto ma è la rappresentazione di qualcosa che può diventare: appare, non è, come la bellezza. Ha una certa dinamica, non appare in ogni suo risvolto in un attimo ma richiede tempo e osservazione e attiva la mente a chiedersi cosa c’è stato prima o cosa ci sarà dopo. Le fa immaginare una storia.

Tutti questi discorsi valgono per l’estetica corrente e comune: parliamo insomma del condiviso concetto di bellezza. Temporaneo e transeunte ma almeno corrente.

Se parliamo invece di arte contemporanea il discorso è diverso. L’estetica e la bellezza non c’entrano più.

Se infine dovessimo far risalire a un preciso evento storico la nascita del discorso contemporaneo dell’arte, dovremmo dire che è figlia della Vienna decadente e secessionista. È un parto della crisi della filosofia e delle scienze e si è forgiata attraverso due conflitti mondiali. È l’esito di una cultura che ha capito che se la bellezza non avrebbe salvato il mondo, almeno avrebbe dato una forma al caos.

Quello che ascoltiamo oggi, ormai da decenni, è il borbottio del caos, e l’arte gli dà forma e lo rende evidente. L’esplosione della cultura e la sua frammentazione non poteva insomma produrre bellezza classica perché aveva decretato la morte proprio di quel linguaggio (la sua incapacità di spiegare la realtà, soprattutto). Quindi decise di spiegare altro, persino il caos.

Il caos non è bello, non è estetico. Però è uno spettacolo a cui è impossibile restare indifferenti. Un’arte che lo spiega non è semplice, non è bella ma tenta di creare un nuovo senso delle cose.

Il caos disorienta ma pone domande, o almeno mette nella condizione di farne. Non è definito e quindi costringe a ricollocarsi in continuazione.

La forma del caos è l’imperfezione ed è nel suo manifestarsi che ho trovato la chiave per seguire una traccia che mi incuriosiva di più della risposta della bellezza (la bellezza è sempre una risposta, ed è sempre quella). Mi sono trovato a essere attratto dalle imperfezioni dei volti, dalle dissonanze, dalla mancanza di somiglianza con la Instagram Face.

Del resto l’estetica è sempre stata uno stato della conoscenza che, attraverso la forma, veicolava significati. Venuta meno la forma dopo l’avvento del caos, sono rimasti solo i significati. Quella che vediamo è l’interno dell’involucro dell’estetica, forse in una sua forma ancora più pura.

Quel pesce che ha nuotato troppo vicino allo scarico della centrale nucleare ha dato una storia a quel volto: sospeso in un presente eterno sarebbe stato una maschera; mutato e imperfetto, segnato e invecchiato, è diventato la forma dell’imperfezione. È diventato una storia interessante che ha trovato un significato.

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