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Parlando di storie potrei raccontare una storia minima, che ne contiene altre, partendo da un presupposto – se il lettore me lo concede: sono da sempre attratto dalle storie e soprattutto dal meccanismo narrativo. Non le so raccontare e quindi, riconoscendomi questa deficienza (fra innumerevoli altre), vorrei porvi rimedio. Quando una storia mi è piaciuta, mi chiedo sempre meno spesso se sia la storia in sé ad avermi interessato e mi rispondo sempre più spesso che è il come è stata raccontata che mi ha affascinato. Voglio capire come funziona.

L’umanità nasce da una storia. Si può dire che l’umanità esiste perché ne esiste la storia. Nel momento in cui abbiamo cominciato a raccontarle – prima oralmente e poi tramandandole in forma scritta – sono state poste le fondamenta dell’umanità.

Prima delle storie sull’umanità non vi era umanità. Questo per dire quanto importanti sono.

La nascita delle storie segna anche un’altra nascita, altrettanto importante: quella della memoria. Non si potrebbero raccontare storie se non ci fosse memoria della prima storia mai raccontata, o almeno dei fatti che quella storia narra. Forse nasce prima la memoria dei fatti e poi la storia che li racconta, ma per ora non conta. Sono nate assieme, o a poca distanza l’una dall’altra.

La memoria costruisce l’esperienza: ne è, si potrebbe dire, il database. Contiene gli elementi che costruiscono la storia. Ha la funzione di ricordare per orientare il futuro e per rendere meno pericolosa la vita: la storia narra la paura e il pericolo per mettere in guardia e preservare così il genere umano, o almeno per ridurre le possibilità che si estingua.

Le storie servono prima di tutte a salvarci e poi a farci vivere infinite vite, o almeno molte più di quelle che possiamo vivere nel corpo che ci è stato assegnato. Ce le raccontiamo per salvarci, e ne sono capaci perché sono parabole istruttive o evasive. In entrambi i casi ci salvano, e sono solo due dei possibili casi.

Le storie danno un ordine alla vita: hanno un inizio, qualcosa in mezzo e una fine. La cosa più importante delle storie è che si concludono: non conta come ma conta che si concludano. Conta così tanto che d’un libro potrebbe andar persa una parte e la storia che vi è narrata avrebbe comunque senso, per il sol fatto di concludersi, anche senza una conclusione narrativa: la sua conclusione è infatti l’accidente che l’ha lasciata sospesa nella perdita di una parte di sé.

Lo svolgimento e la conclusione di una storia rappacificano la mente che ha bisogno di cicli che si concludono (ha bisogno di requie, ha bisogno di ritmo e quindi di alto e basso, di silenzio e rumore, di inizio e fine).


La storia dentro la storia (una di quelle che narrerò qui, con i miei scarsi mezzi) è un’immagine più che una storia: io e mio padre che torniamo dalla visione di Dune 2. Lui mi chiede se mi è piaciuto. Io sto ancora pensando all’epifania che ho avuto vedendolo (e cioè che i vermi giganti sono usati per viaggiare da una parte all’altra di Arrakis, e quindi possono essere considerati il servizio di trasporto pubblico di quel pianeta, per chi riesce a saltarci sopra senza esserne spazzato via – e non richiedono neanche il pagamento di un biglietto, in cambio del rischio elevatissimo di morire). Gli rispondo di sì, che mi è piaciuto molto.

Il motivo che affiora alla mente è che l’ho capito: ne ho capito le dinamiche, ho capito le fazioni, ho capito chi erano i buoni e i cattivi e ne ho colto l’elemento contemporaneo, e cioè che i buoni non sono davvero buoni e viceversa. Lui non è convinto. Gli faccio il discorso con cui ho iniziato questo pezzo, e cioè che è il meccanismo narrativo ad avermi affascinato, il ritmo, la sapienza con cui vengono accostate le parti, come queste lavorano a creare un organismo narrativo coerente. L’aspetto spettacolare del film è centrale ma neanche poi tanto: da Villeneuve te lo aspetti, e sai che lo usa in funzione della narrazione e non della stupefazione dello spettatore. I suoi film sono fatti di cose che servono a raccontare una storia, non a soggiogare e ingannare chi li guarda.

Accosto io stesso i pezzi della mia spiegazione e capisco perché mi è piaciuto: lo ripeto, ed è che l’ho capito. Una storia deve essere capita, quanto meno per essere efficace, per avere un senso. Un modo perché ciò avvenga è attivare chi l’ascolta, cioè dargli l’impressione o almeno fornirgli gli elementi per animare la storia, per completarla con la sua mente. Quanto più l’ascoltatore ha idea di aver intuito o collegato le parti della storia, tanto più se ne sente partecipe. Diventa insomma un ascoltatore attivo.

Il meccanismo di attivazione prende diverse forme. I gialli sono fra le storie più amate perché sono basate su un accordo segreto fra narratore e ascoltatore: il primo fornisce al secondo elementi (gli indizi) e il disvelamento del mistero non è solo esito dell’intuito del protagonista ma anche dell’attore esterno, cioè dell’ascoltatore.

L’ascoltatore è fondamentale nelle storie e per le storie: se non esistesse chi le ascolta, non esisterebbero le storie. O esisterebbero ma in uno spazio astratto – nel piano esistenziale delle storie, sordo perché non ci sarebbe nessuno ad ascoltarle.

Si dice che l’umanità ha bisogno di storie ma la rivelazione – almeno per me – è che sono le storie ad avere bisogno di noi, per esistere.

Questa era la prima storia nella storia. Rimettiamole in ordine: la storia nell’umanità (e la storia dell’umanità), quella di Dune 2 e quella di me e mio padre che torniamo dal cinema e ne parliamo.

Prima di arrivare all’ultima (collocata sul finale perché conosco qualche artificio efficace e forse banale ma sempre utile per raccontare storie), scrivo qualche riga su un’altra storia, anche perché ne parlavo a mio padre per corroborare la mia tesi sul Dune 2 e sul raccontare storie. È quella narrata in un altro film, ossia “El Conde” di Pablo Larraín.

Il film narra di Pinochet ma non si tratta di una biografia (o biopic) perché non potrebbe esserlo (Pinochet vi è rappresentato come un vampiro). Mi ha fatto pensare alla banalità del male. La sua missione – impersonando il Male Assoluto – è quella di preservare sé stesso e in ciò è più determinato del Bene che è estroflesso e deve operare per il progresso. Il Male vuole invece solo affermare se stesso: a un certo punto Pinochet vuole morire, ha 250 anni, ne ha avuto abbastanza. Improvvisamente però cambia idea e decide di continuare a vivere, con gioia quasi fanciullesca, ignaro dei familiari e anzi, deciso a sbarazzarsi anche di loro, qualora lo intralciassero.

Parrebbe un film basato su una storia bizzarra e inconsistente e invece è una parabola sul Male e sulla sua gioiosa energia di autoaffermarsi, di alimentare solo se stesso. E anche sulla sua capacità di essere persuasivo, invitante: Pinochet è un personaggio che non si riesce o odiare (senza che Larraín sia apologetico nel tratteggiarlo). Nonostante impersoni il Male, la sua funzione narrativa è ancor più subdola: egli lo impersona essendolo. Pinochet è il Male in tutte le sue molteplici forme, soprattutto quelle meno esplicite: non è il Male assoluto in quando fine, negazione, opposto del Bene, ma assume forme cangianti. È persuasivo, convincente, ironico, debole, passivo, alla fine avvincente e vincente. È la banalità del Male, cioè l’abito che indossa quando vuole essere ancora più subdolo, per meglio confondersi con qualcosa di familiare, innocuo, amichevole. Pinochet appare indifeso e sincero quando afferma di non essersi mai reso conto di aver compiuto stragi e di essere stato agente di odio e lo fa in modo convincente, dimostrando senza remore la propria beota stupidità. Che male può fare una persona così stupida?

La banalità del male sembra sempre innocua, perché vuole apparire come tale, non perché lo sia.


L’ultima storia nella storia riguarda ancora Dune 2. C’è qualcosa di molto personale in quel film e non posso escludere che abbia influenzato il mio giudizio. In poche parole, perché di storia non ve n’è molta di più, quando Villeneuve girò le scene al Memoriale Brion, io ero presente sul set.

Per una serie di motivi che non hanno importanza, ebbi la fortuna di poter vedere come si fa un film e ne rimasi comprensibilmente stupefatto. Non avevo mai visto una macchina umana così prodigiosa all’opera, e le scene che vi girarono sono le più contenute in quanto ad azione, quindi non richiesero un numero elevato di persone.

Vederle al cinema mi ha fatto ripensare a quel giorno di luglio e alla magia del cinema. Quando la Rampling parla a Florence Pugh sotto il padiglione sull’acqua io c’ero, pochi metri dietro la macchina da presa. A un certo punto Villeneuve è venuto verso di me e si è presentato, dicendo nome e cognome, forse anche “Sono il regista” ma non ne sono sicuro perché in quel frangente connettevo molto poco. Pensavo solo “Solamente la tua gentilezza canadese può farti pensare che io non sappia chi sei” ma al contempo ero sopraffatto, appunto, dalla sua gentilezza. Mi spiegò cosa stavano girando e perché usavano diverse macchine da presa.

Ci sarebbero tante altre cose da raccontare di quel giorno ma mi sono dilungato anche troppo e le storie devono finire prima o poi. E oggi ne ho raccontate anche troppe, quindi metto il punto. Qui.

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