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Centimetri

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Centimetri

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Play Time è un film del 1967 di Jacques Tati e racconta la giornata di Monsieur Hulot e gli incontri surreali che fa in un giorno come un altro.

È diviso in sei momenti o episodi e quello da cui è tratto il fotogramma è il secondo: Hulot cerca di arrivare a un appuntamento in un edificio ultramoderno (bellissimo e minimalista, a dire il vero, ed esteticamente ancora molto attuale) in cui le porte degli ascensori sono uguali a quelle degli uffici e tutto è indistinguibile, impiegati compresi. È una metafora dell’impenetrabilità e dell’incomprensibilità della burocrazia e della modernità, che appare splendente e perfetta nella sua organizzazione teoricamente impeccabile. Ed è anche una metafora del mito industriale che postula che la riduzione del difetto – fino al suo annullamento – coincida con la perfezione, cioè con l’eliminazione dello spreco. L’industria è spietata e disumana, nel senso che sradica l’elemento umano dalla sua equazione. L’economia lo è altrettanto. 

Ma torniamo a Play Time.

L’inquadratura è costruita in modo da non enfatizzare l’ordine ossessivo e omogeneo con una composizione centrale, ma rompendo invece la regola militare con un leggero disassamento, come a indicare il disorientamento del protagonista che non riesce a trovare il suo posto in quell’ordine meccanico. Al centro c’è lui, che nei pochi secondi di questa sequenza si muove avanti e indietro, cercando di capire dove andare. È ovviamente disorientato, ma la genialità di questa semplice inquadratura è che sottolinea il suo smarrimento con un leggerissimo movimento fuori asse. 

E si tratta di uno spostamento della macchina da presa di qualche decina di centimetri fuori asse.

Ecco cos’è un punto di vista.

Un punto di vista è individuale, è nella sua stessa definizione: è un punto da cui si osserva e presuppone l’osservazione di un oggetto, una persona o un paesaggio. Qualcosa viene osservata da qualcuno. Pochi centimetri possono dire cose diverse. Pochi centimetri hanno un’importanza capitale. 

Nel caso di questa scena di Play Time definiscono il discrimine fra una situazione in cui il protagonista è parte di una struttura sociale in cui è integrato (la ripresa assiale, che enfatizza la percezione del dominio della regola) e quella realizzata, in cui lui è alieno a quella regola e la osserva spaesato. Appartenenza e non appartenenza. Basta pochissimo per fare la differenza, e cioè – in altri termini – la differenza fra un significato e un altro e fra la percezione e l’inizio dell’imprecisione è, a volte, questione di centimetri o di pochissimo. È, in fondo, ciò che distingue il quasi perfetto dal perfetto, dove per “perfetto” non si intende “privo di difetti” ma ciò che più precisamente incarna il suo stesso senso. Quello della scena di Play Time è il tema dell’essere altro dall’ordine costituito, standone ai margini, osservandolo da distante. 

A proposito mi è tornato in mente ciò che si dice delle 4 di mattina, come di un’ora che sull’orologio è identica alle altre, ma che nella realtà ha una proprietà che la rende unica: non è né ancora giorno né tantomeno è più notte. È un’ora durante la quale è rarissimo essere svegli e la conoscono solo quelli che lavorano di notte o i poeti (si dice che alcuni poeti o scrittori la amino per questa sua indefinitezza, per non essere più qualcosa e allo stesso tempo non essere ancora qualcosa d’altro). Quindi, più che la perfezione e l’imperfezione, è interessante ciò che li divide, quel terreno che c’è fra di loro, che non è né una cosa né l’altra. Le quattro di mattina, appunto.

Curiosamente e per amor di precisione (lupus in fabula) ho cercato questa definizione “filosofica” delle 4 del mattino e non ho trovato molto, per non dire niente. Mi pare di averne sentito parlare anni fa in un podcast ma se l’avessi immaginata o sognata, tanto meglio (nel caso avessi inventato io questa sua formulazione ne rivendicherò la paternità ma dubito di aver avuto un’intuizione così geniale).

In quell’ora, insomma, c’è la differenza (questo pezzo poteva anche chiamarsi così) o il dominio dell’indefinitezza. Una bella espressione francese lo definisce “entre chien et loup”, descrivendo quell’ora del giorno e quella particolare qualità e intensità della luce che non permettono di distinguere un cane da un lupo. Le differenze, come dire, restano – un cane resta comunque diverso da un lupo – ma la percezione che ne abbiamo è più sfumata. Ambigua è forse il termine adatto: questa è l’ora dell’ambiguità, le 4 del mattino sono l’ora ambigua, sono le terre di mezzo, è il territorio che sta fra i confini, senza essere né dell’uno né dell’altro. 

L’ambiguità è nemica della perfezione (intesa nell’accezione industriale di cui si parlava prima) perché contiene più significati. Il prodotto industriale e lo standard ammettono invece solo la precisione della descrizione e l’aderenza delle parole che usa: le parole devono dire cosa è e non essere interpretabili.

Si tratta – inutile dirlo – di un contesto molto interessante perché ha una vibrazione, non è mai uguale a sé stesso, è camaleontico e cangiante. Le cose definite dicono tutto per come appaiono, quelle indefinite lasciano lo spazio alla possibilità di essere diversamente, fanno pensare di poter cambiare sotto gli occhi dell’osservatore. 

È un po’ quello che la critica diceva degli Impressionisti – o forse lo diceva di Monet, non ricordo – e cioè che le pennellate ripetute e ossessive, i margini indefiniti e quella dimensione onirica dei loro quadri descrivevano per la prima volta il tempo più che la realtà, cercavano insomma di dare una forma comprensibile e visibile a una dimensione che si sente ma non si vede. 

Forse le 4 del mattino, la luce che non distingue un cane da un lupo e lo spostamento lieve ma decisivo dall’asse di un obiettivo servono a spostarsi dalla dimensione della perfezione (dove non c’è errore e non c’è il tempo) a quella dell’instabilità, del ribollire della realtà, delle cose che non sono ma sembrano o sono altro. Un viaggio più disorientante ma più interessante. 

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