Title

Interesse

Excerpt

Date

Interesse

Text

“La zona di interesse” comincia con una lunga sequenza buia. Non succede niente o succede tutto. Quanto dura? Non saprei dirlo: 30 secondi che sembrano 20 minuti, o forse solo 3. Il fatto è che qualsiasi scena statica e vuota al cinema rappresenta un tempo infinito. Da quella prima sequenza durante la quale si sente solo una musica incoerente, senza una struttura armonica – suoni, dovrei dire – Glazer inizia a dettare le regole del gioco. Lo fa prolungando l’esperienza collettiva del cinema: quando in sala si fa buio ci si trova assieme ad altre persone a non averne paura. Una delle situazioni simbolicamente più angoscianti della natura umana – la cecità, amplificata dal timore che il buio nasconda più che non far vedere cosa c’è – è vissuta in una condizione sociale come accettabile e prodromica a ciò che succederà dopo poco: le immagini si animeranno sullo schermo.

Non in questo caso. Il buio in sala si illumina debolmente della luce di uno schermo buio. In sala si sente qualche suono. È una parentesi durante la quale Glazer stabilisce ancora più distanza fra ciò che c’è fuori e ciò che sta per accadere: prepara la scena.

Oppure no. Credo che proprio in quella manciata di secondi faccia qualcosa di più potente: non crea uno iato ma rivolge la macchina da presa sul pubblico. O la spegne del tutto. Quando il film non è girato (lo schermo è nero) ma la sala è gremita allora il cinema prende vita nella sala e non sullo schermo.

In quei secondi sul limitare del nulla ci si domanda quando inizierà mai il film o se vi sia qualche problema tecnico. Constatato che è così che deve essere, lo sguardo mentale si introflette: ci osserviamo e non osserviamo più uno schermo, o forse lo schermo buio ci riflette.

La zona di interesse parla di noi.

Ho iniziato a pensarlo quando ho capito che gran parte delle critiche negative vertevano sul fatto che si tratterebbe di un film irrispettoso nei confronti delle vittime dell’Olocausto. Confesso che non ho capito nemmeno perché alcuni lo pensino e aggiungo un dettaglio che introduce la mia tesi. La locandina del film presenta una scena che esiste nel film (una festa nel giardino della casa del direttore di Auschwitz, adiacente al muro del campo di concentramento) ma radicalmente diversa: nel film i padiglioni della morte al di là del muro di cinta sono ben visibili, nel manifesto al loro posto c’è un cielo notturno che fa apparire il giardino come isolato ed esposto a un universo infinito al di fuori di esso. O forse si tratta del nulla e basta. Cosa rappresenti questo buio è relativamente importante: quello che importa è che la scena è simile ma è diversa, in modo radicale.

La scena è decontestualizzata, tanto che è possibile capire di cosa si tratti (un momento collettivo in un giardino) ma in un contesto astratto, non caratterizzato da alcun dettaglio che aiuti a collocarlo in qualche luogo – fisico o storico – particolare.

Allora ho pensato che La zona di interesse forse non è un film sull’Olocausto. Parte da quel tragico fatto storico – è evidente – ma non di certo per darne una lettura storica o documentaria.

La casa del direttore esiste davvero nella realtà: è collocata proprio dove il film lascia intuire che sia, anche se ha una forma e uno stile un po’ diverso. Il film del resto è ispirato all’omonimo romanzo di Martin Amis, che ha una struttura ancora diversa ma la medesima idea: che l’azione avvenga in un contesto di tragedia pura ma abbia meccanismi interni di tragedia privata, in particolare quella dei tre protagonisti principali.

Un documentario non è una metafora e trattare il libro o o il film come se lo fossero significa non capire con che voce parlano, cioè non quella della storia e dello storico.

La tragedia privata che è raccontata sullo sfondo di quella collettiva ma non vi fa parte: usa quest’ultima come un pretesto, non come un contesto. Non vuole dimostrare niente al riguardo. O forse compie un’operazione un po’ diversa: la astrae togliendola dal flusso del tempo e rendendola assoluta. La forma della tragedia e la rappresentazione del Male hanno una forma mutevole, che a volte diventa un campo di concentramento e a volte dell’altro.

La zona di interesse è una metafora, una parabola, come le migliori storie. E come queste non è calata in un tempo storico particolare: l’azione delle storie che l’umanità si racconta da millenni non deve avere una collocazione storica precisa perché in questo modo avrebbero meno forza. L’appartenenza a un segmento preciso della Storia le circoscriverebbe, eliminando l’aura metaforica.

Il mio personale criterio di giudizio di un’opera d’arte (e i film sono a buon titolo tali) è molto semplice: la qualità è direttamente proporzionale al sedimento che mi hanno lasciato. In altre parole, se ci penso il mattino dopo averlo visto, si tratta di un film con qualche qualità; se ci penso anche giorni dopo o pure settimane è perché di qualità ve n’è in abbondanza. Intendo ovviamente una qualità non estetica e uso il termine “estetica” per indicare la forma. Parlo di contenuto: se risuona in continuazione e per lungo tempo allora sta parlando con parole che suonano familiari e comprensibili. Non per questo piacevoli, anzi: direi che un’opera di grande qualità parla con la voce della Verità e della Realtà, sfuggendo alle categorie di piacevole o meno, di buono o cattivo. Un’opera d’arte assoluta parla di assoluto, appunto.

Il cinema migliore accade fuori dal cinema, a film finito.

Il film è un’opera d’arte che continua a propagare onde ben oltre la sua durata. Essendo un messaggio viene percepito da orecchie diverse in modo diverso. Io non ho percepito La zona di interesse come un documentario, cosa che invece altri pensano che sia. Un documentario ha la forza del racconto storico e dell’informazione – rende edotte le persone su qualcosa accaduto nel passato – ma mette anche una distanza fra l’osservatore e il fatto accaduto: quest’ultimo appartiene al passato mentre l’osservatore è nel presente, al sicuro in una realtà che non permette che esistano i fatti narrati sullo schermo.

Glazer fa l’opposto: azzera le distanze e colloca il racconto in un contesto storico che è un pretesto. Non è insomma un film sul passato ma sul presente. Per questo è ancora più sconvolgente: perché avverte che le dinamiche del disinteresse e del distacco emotivo, dell’allucinazione collettiva e dell’insensibilità umana sono presenti e potenti anche oggi. Parla di noi perché non porta il nostro sguardo su ciò che è accaduto ma ci guarda dritto negli occhi e ci dice che quello sullo schermo è il presente.

Concludo parlando dell’enigma del titolo: premetto che non l’ho risolto e non so nemmeno se debba essere risolto. Di certo me ne sono uscito dal cinema chiedendomi cosa c’entrasse con la storia e cosa fosse questa benedetta “zona di interesse”. Non ho una soluzione se non questa: la zona di interesse è il limitare del giardino del gerarca nazista, sul bordo di Auschwitz. L’interesse è ciò che vedono i nostri occhi: oltre c’è la zona di disinteresse, quella da dove provengono le urla dei deportati o, nel nostro presente storico, le notizie che decidiamo di ignorare o travisare. La zona di interesse è la zona di intelligibilità del reale, è quel che ognuno ne capisce: è il terreno davanti ai nostri occhi e tutto quello che ci finisce sopra e su cui posiamo lo sguardo.

La zona di interesse appartiene a una dimensione personale, claustrofobica e ristretta, e ha la funzione di eliminare tutto il resto. Forse per non farci impazzire, chi lo sa.

Come nel poster del film, oltre il nostro giardino non vediamo i padiglioni della morte ma un cielo stellato e nero. Potrebbe essere rassicurante ma anche disperante: potrebbe essere il Tutto o il Nulla. Si tratta di scegliere una carta, e di dimostrare un certo interesse.

Altri articoli

Fotogrammi

Se un film è narrato da immagini in movimento, la sua storia può essere raccontata da alcuni suoi fotogrammi?

Marcello Mastroianni

Se gli uomini hanno un’epoca o un tempo storico, Mastroianni era fuori dal tempo

Come visitare un museo​

Una guida non ragionata ma ragionevole

IT