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Silenzio

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Silenzio

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La Nona sinfonia di Mahler si conclude con un silenzio. Non l’avevo mai notato e l’ho scoperto casualmente, guardando uno di quei video che Instagram ti propone cercando di indovinare i tuoi interessi, mentre occupi troppo a lungo il tempo fra una cosa che devi fare e la prossima, o mentre aspetti la pizza.

A dirla tutta, la Nona di Mahler non è proprio una di quelle musiche che ti ascolti in auto o mentre corri, così come un po’ tutto Mahler. Secondo me Mahler te lo ascolti solo quando ti trovi in certi snodi cruciali della vita, e non saprei neanche bene perché. A me è capitato così e basta.

Questa volta però è capitato per caso. Dirigeva Abbado, si sentiva solo il suono di qualche arco affievolirsi sempre di più e poi nulla, il silenzio più perfetto.

Questo silenzio appartiene al finale dell’adagio (4° e ultimo movimento). Dura qualche minuto, ed è descritto come un finale che, al contrario di quelli romantici che normalmente sono epici e di volume (sonoro) tetragonale, si articola in una dissoluzione della musica.

“Dissoluzione”: descrivono questo silenzio proprio così, perché il suono si sfilaccia e sfibra e affievolisce sino a scivolare nel silenzio.

Quella definizione non ha potuto non attrarre la mia attenzione. Mahler la compose, si dice, in ricordo della figlia morta per malattia e ormai consapevole delle proprie precarie condizioni di salute.

Leonard Bernstein descriveva questa dissoluzione/silenzio come una delle esperienze più profonde e trascendentali che si possa esperire. Qualcosa di mistico che richiede una partecipazione totale del pubblico. Affinché il miracolo si compia, nessun suono o rumore deve turbare il campo sonoro/mistico che la dissolvenza della musica crea. Eppure quel silenzio è ancora musica: forse quella più pura che, da struttura organizzata, torna a essere suono puro e poi assenza di suono, come ritornando alle origini dell’universo.

Più o meno negli stessi giorni stavo leggendo “L’avversario” di Emmanuel Carrère. Che non c’entra niente con il silenzio o con la Nona di Mahler ma che ho chiuso all’ultima pagina chiedendomi chi fosse questo avversario. Cioè: chiaramente lo era rispetto al protagonista (che compì un atroce fatto di cronaca alla fine degli anni ‘90, quando sterminò i genitori e la famiglia ormai sul punto di essere scoperto dopo 17 anni come uno che aveva inventato una carriera professionale inesistente e che aveva frodato amici e parenti per procurarsi soldi per vivere) ma avversario in che senso? Non mi ero mai accorto che in quelle pagine vi fosse un avversario più o meno esplicito, forse perché ero distratto e disturbato dalla vicenda.

Poi ho capito: l’avversario era sé stesso, o meglio, l’immagine che egli stesso aveva di sé, o quella che la società proiettava su di lui e lui su di essa. L’avversario è l’Io che il resto della comunità si aspetta che noi siamo, forse è tutto quello che vede di noi: è un’immagine che rappresenta ma non è la cosa rappresentata.

E allora ho visto L’avversario sotto una luce completamente diversa: ho visto me stesso e il mio stesso avversario. Che non sono io ma è quello che il resto della società pensa che io sia (anzi, peggio: è quello che io penso la società pensi, quando è noto che la società non pensa alcunché di me e di qualsiasi individuo), ed è un’illusione così reale e condivisa da essere scambiata per vera.

La tensione di una vita intera può essere quella di recitare la parte del proprio avversario (come il protagonista dell’omonimo romanzo). Recitare e fingere, e quindi non-essere. Si può arrivare al punto da identificarsi così tanto nell’immagine del proprio avversario interno da dimenticarsi di essere sé stessi, dal trascurare di vivere, nel frattempo. L’avversario diventa un padrone invece che un termine di paragone che dovrebbe spronare al miglioramento, pur esistendo solo in una dimensione mentale.

Quanto vi è di vero in questo avversario immaginario? Qual è la distanza fra ciò che siamo realmente e ciò che dovremmo essere, secondo questa immagine proiettata? Quanto ha senso poi usarla come criterio di riferimento?

L’analogia e il contrasto sono due modalità formative per l’essere umano: si evolve cercando di assomigliare o meno a una figura, a un’idea. Succede nell’adolescenza e poi non smette mai, almeno fino a un certo punto. C’è chi ci arriva dopo, e chi non ci arriva mai (non che sia un traguardo, è solo un percorso).

Giungere alla constatazione che la distanza fra l’Io e il suo avversario dovrebbe annullarsi e che la frustrazione non nasce dal non essere come il proprio avversario ma dal non essere come sé stessi.

Ho sempre capito poco di matematica ma mi ha sempre affascinato. Ne ho sempre visto la bellezza del ragionamento, anche senza riuscire a capirlo, o almeno non sempre.

Mi ha sempre confortato pensare che ne vedevo l’eleganza più che la funzione, come se l’estetica e l’asciuttezza del linguaggio fossero già di per sé ragione sufficiente per meritarle una dimensione artistica. Per me le espressioni sono belle come un quadro astratto: non le capisco (non sempre) ma le trovo enigmatiche, e quindi già per questo cariche di significato.

L’identità in termini matematici mi sembra descriva bene il rapporto sano che bisognerebbe avere con l’avversario: il rapporto fra due espressioni diverse che però stanno fra di loro in un rapporto di identità, appunto.

La frustrazione che descrive lo scollamento fra queste due espressioni – l’Io e il suo avversario – è la mancanza delle condizioni che rendono possibile l’identità. Allora bisogna avvicinare i due estremi il più possibile.

All’inizio di questo ragionamento pensavo che la dissoluzione di cui parlavo prima fosse da applicare all’avversario. Poi mi sono reso conto che ne volevo la distruzione, più che la dissoluzione. L’atto del dissolvere presuppone la comprensione dell’elemento dissolto: è ormai integrato, è ovunque, è come la musica che diventa silenzio nell’adagio della Nona di Mahler, rimanendo pur sempre musica.

Quindi mi chiedevo se l’evoluzione del pensiero lungo sui cui medito da anni – cioè la dissoluzione dell’Io – dovesse passare per la dissoluzione dell’avversario. No: significherebbe negarne l’esistenza e la ragione d’essere, e soprattutto verrebbe a mancare uno dei due termini dell’identità.

Ciò che deve dissolversi è la distanza fra Io e avversario. Le differenze, le distanze, le discrepanze.

Si potrebbe pensare a questo punto che una possibile soluzione sia diventare finalmente l’avversario ma questo non è l’Io, ne è semmai un satellite.

Mi sono detto che il mio avversario non potrebbe esistere senza me stesso, mentre non è vero il contrario: potrei farlo vivere accogliendolo mentre lui non può fare altrettanto perché lui è un’idea, non è reale.

L’avversario è solo immaginato, io sono reale.

Torno al silenzio. Quello che non ho detto prima riguardo alla Nona di Mahler è il silenzio non è il niente ma è il tutto. Il silenzio è, paradossalmente, parola. Quindi ascoltare quelle note inesistenti non significa ascoltare il nulla ma invece è ascoltare la parola fondamentale e originale, forse il suono dell’universo, quello che supera in potenza e in trascendenza ogni parola.

È un dialogo senza parole, è l’ascolto puro. Quel silenzio si sente non solo con le orecchie ma con il corpo e la mente, nella sospensione, nell’estasi della percezione del primo suono dell’universo.

Il suono della dissoluzione è un silenzio, è un dialogo che ascolta e non usa parole.

Volevo dissolvere il mio antagonista e invece ho capito che non voglio più assomigliargli: voglio solo ascoltarlo. E lui mi ascolterà.

In fondo, sono io a decidere.

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