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Senso

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Senso

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Neil Young canta in On the Beach:

I went to the radio interview
But I ended up alone at the microphone

All’intervista che dovevano fargli in radio si è trovato da solo, davanti a un microfono. Uno spiacevole inconveniente, o una condizione esistenziale? Pensava di dover raccontare la sua storia e non c’era nessuno a chiedergliela.

Non dice se poi l’ha raccontata, fingendo magari che ci fosse qualcuno a chiedergliela. Poi continua “But those seagulls are still out of reach”, i gabbiani erano troppo lontani. Poi va fuori città, “I thing I’ll get out town”, dove non lo sa, “I follow the road, though I don’t know where it ends”.

Non succede niente in questa canzone: sono tre scene scollegate: l’intervista in radio, lui sulla spiaggia, lui che prende il bus per andare fuori città, non sapendo nemmeno dove finisce la strada. Le si può immaginare collegate ma funzionano anche da sole, dato che non significano niente. O no?

Un giorno ascoltavo Cortez The Killer, pensando che avevo sempre ascoltato distrattamente Neil Young. Quella la registrarono un po’ stonati: il chitarrista Frank Sampedro aveva fumato della cocaina, per tutta la canzone pensò fosse in una chiave diversa. Lui e Young suonarono insomma due canzoni diverse, o circa, chi conosce la musica lo saprebbe spiegare meglio. Suonarono la stessa cosa ma lievemente sfasata. Seguivano due sensi diversi, che insieme fanno una delle più belle canzoni mai scritte. Il senso del resto è una visione così personale, ne siamo costantemente alla ricerca.

Un senso in tutto ciò, per Dio, un senso.

Senso ha origine indoeuropea e deriva da sent-. Significa “percepire, andare, prendere una direzione”. Quindi ha almeno due accezioni: percepire (con i sensi, appunto) e prendere una direzione. Forse bisogna sentire per capire in che direzione andare, così come Neil Young decide di prendere il bus fuori dalla città, anche se non sa dove conduce la strada.

Quella canzone non conterrà una storia (in realtà ne contiene tre) ma assomiglia molto alla vita: un insieme di cose senza senso da cui si cerca di estrarne uno. Come se dovesse esistere, nell’illusione che esista.

Oggi ho anche sentito l’espressione amor fati. Oddio, non è la prima volta che la sento (la sento, il senso è ovunque ma non si rivela mai) ma non mi ero mai interrogato su cosa significasse né sapevo che ne scrivesse Nietzsche. Il fatto che non abbia mai letto Nietzsche forse spiega perché non lo sapessi e che, anzi, è un punto nodale della sua filosofia. Che a molti – a me di certo – è giunta sotto forma di aforismi stampati su magliette pseudo-esistenzialiste. Curiosa fine per i filosofi più ieratici: finir ricordati per frasi che han scritto e che – mi piace ironicamente pensare – magari non erano nemmeno quelle più intelligenti che gli pareva di aver scritto. Anche quello è il senso con cui la cultura popolare – che è un po’ il senso della massa per la cultura o per tutto ciò che non è produttivo – investe il pensiero alto: ne trattiene quel che riesce a capirne ed elaborare e lo stampa sulle magliette. Che è un altro modo per dire che il senso è frammentato, ognuno ha un suo senso, o ognuno lo cerca.

Il senso è una direzione, informata da una percezione.

L’amor fati, dicevo. Confuso per l’accettazione del destino, non lo è, altrimenti l’avrebbe chiamato così, ma in latino: acceptatio fati, accettazione del destino. Le parole sono importanti.

Amare il destino significa amarlo, appunto, non accettarlo, e l’amore è una condizione diversa dall’accettazione perché, quantomeno, non è passiva. Per amare bisogna agire, non si può subire un amore, quella è un’altra cosa, nemmeno tanto bella.

Attraverso l’idea dell’eterno ritorno, Nietzsche spiega la potenza dell’amor fati. Se ogni istante della vita si ripetesse per l’eternità, immutabile e identico a se stesso, si darebbero due condizioni: l’accettazione o il rifiuto. All’idea di essere destinati (fato, appunto) a rivivere per l’eternità sempre la stessa vita, alcuni impazzirebbero, altri – coloro che amano il destino, si persuaderebbero che l’unica cosa sensata da fare sia amarlo. Amare il destino, le sue gioie e le sue tristezze, è un modo per dargli un senso, che cambierebbe in continuazione se il tempo non fosse governato da un eterno ritorno e non si ripetesse sempre identico a se stesso.

L’eternità ha una condizione molto particolare: non è definita dal tempo ma dalla sua assenza.

Vivere in eterno non significa vivere fino alla fine del tempo o per sempre ma vivere oltre il tempo, o in assenza del tempo. L’amor fati allora serve ad amare quella condizione di negazione del tempo.

Se però non esiste il tempo ma l’eternità (che è uno stato di assenza di tempo), allora il senso in quanto direzione non ha più motivo di esistere, poiché non indica più una direzione o uno svolgersi del tempo. Il tempo, infine, che è una dimensione separata e assoluta rispetto allo spazio e alle sue dimensioni, al venir meno delle direzioni (cioè il senso), non esiste più.

Nel senso cerchiamo un motivo, una direzione, cioè una strada da seguire, ma la strada esiste in due stati: in quanto tale (assoluto) e come esperienza individuale. Procediamo su una strada (procediamo nella vita) e la percezione dello spazio si fonde con quella del tempo: ci muoviamo nello spazio mentre il tempo scorre, e il tempo scorre perché lo misuriamo dall’incedere nello spazio. Lo spazio della vita è il segno che vi lascia il tempo, ossia l’età che avanza: i segni del tempo sono le rughe, che ne sono la calligrafia.

Quindi, anche se non so se Nietzsche sarebbe d’accordo con me, l’amor fati annulla il tempo e quindi la necessità del senso. O, in ultima analisi, l’accettazione del destino coincide con l’accettazione del fatto che niente abbia senso.

Perché allora abbiamo bisogno di dare un senso alle cose? Perché dobbiamo collocarci nel tempo per percepire non tanto il senso della vita ma il suo svilupparsi. Abbiamo la necessità di percepire una qualche evoluzione. In questo senso, il riscontro dell’esistenza dell’evoluzione richiede la presenza del tempo, poiché lo sviluppo evolutivo è misurabile solo rispetto al tempo. Oggi meglio di ieri, domani meglio di oggi.

Non cerchiamo il senso ma la sua direzione, che è anche una logica ricorsiva, poiché il senso è di per sé direzione. Quindi cerchiamo la percezione del senso più che il senso il sé, che è sfuggevole e forse inesistente.

Collocarsi nel flusso del tempo rassicura poiché aiuta a trovare la propria posizione nel fluire del tempo. Del resto, per sapere in che direzione (senso) procedere, bisogna innanzitutto sapere dove ci si trova.

Vale la pena un inciso sull’etimo di evoluzione, che deriva da evolvere, cioè svolgere. L’atto è quello di srotolare la pergamena. L’evoluzione indica un progressivo disvelarsi del disegno (il senso contenuto nella pergamena è visibile solo quando essa è aperta – svolta – del tutto) e, ancora una volta, siamo nel dominio di spazio e tempo. Lo svolgersi della pergamena è un atto che richiede spazio, per poi occuparlo, e avviene in un certo tempo. Il fatto che la pergamena abbia un senso di svolgimento e di lettura, e che sveli il quadro complessivo solo una volta aperta, non è casuale.

Ma questo era, appunto, un inciso. Che definisce ancor meglio un fatto.

Per trovare un senso dobbiamo osservare un’evoluzione, e questa richiede spazio e tempo. In una dimensione senza tempo (eterna) non esiste evoluzione, dato che non esiste il tempo.

Tutto ciò dice qualcosa sul senso della vita? No, e chi potrà mai saperlo poi il senso della vita. Forse è procedere nello spazio e nel tempo, ma capisco che non sia risolutivo né confortante. Deve esserci un senso, ossia una direzione.

In queste riflessioni, mi trovavo a interrogarmi sul piacere di ascoltare Neil Young, o almeno certe canzoni. Mi piacciono le storie che racconta? Ogni storia appartiene al tempo, nel suo sviluppo e nella sua essenza. Quella di Cortez The Killer è la storia del conquistatore, sebbene narrata con diverse imprecisioni storiche. Quella di On the Beach è la storia di sé stesso, seduto da solo davanti ai microfoni di una radio senza che nessuno lo intervisti, o è la storia di lui che se ne va, per una strada che non sa bene dove conduca (una bella metafora della vita, a ben pensarci). La strada per l’eternità, si sarà capito, non esiste, perché nell’eternità non vi è né tempo né spazio.

Raggiungere l’eternità significa infatti collocarsi fuori dal tempo e diventare trascurabili, di certo non memorabili poiché ciò che è memorabile è sottomesso a una condizione: in quanto memoria di eventi passati, non può mai allontanarsi dalla linea del tempo, perché il tempo ne è riferimento. Del resto non esisterebbe memoria senza il tempo (che le dà prospettiva), dato che gli elementi della stessa si collocano lungo la linea del tempo.

Restano le storie. Ci piace sempre sentirle raccontate, a volte anche solo immaginarle. In metro immagino le storie di chi ho di fronte. Per strada incrocio lo sguardo di qualcuno e decido dai suoi occhi che giornata ha avuto.

Oggi ho passeggiato in una piccola via, le finestre erano aperte e ne usciva il profumo del sugo sul fuoco. Era una storia anche quella, di una famiglia che ancora cucina in casa e che prepara il cibo per i prossimi giorni. Ed è anche la storia di una tradizione che si rinnova e di un profumo che evoca ricordi e sposta la mente in momenti passati. Beandomi di quel delizioso profumo ricordavo i pomeriggi in cui lo preparava mia nonna mentre giocavo in giardino. In quei momenti raccoglievo frammenti di vita che si sarebbero trasformati in memorie, che si sarebbero riattivate un pomeriggio, passeggiando davanti alla finestra di una casa in una piccola via della mia città.

Ed ecco, per finire, a cosa servono i ricordi: a ricordare, ovviamente, ma soprattutto a viaggiare lungo la linea del tempo, e a tornare al passato restando nel presente, a vivere cioè in due condizioni temporali diverse. Forse dovrei coniare un nome per questo tempo: il passante, o il pressato. Due tempi in uno, e un modo per trovare un senso non procedendo solo in linea retta (sperando sia quella giusta) ma anche tornando indietro sui propri passi, osservando meglio la pergamena e leggendo con attenzione i segni che riporta. Pensiamo che il senso sia una direzione che punta al futuro, e invece torna indietro, si contorce e si aggroviglia, si dipana e poi balza.

Il senso non è una direzione, il senso sono tutte le direzioni possibili.

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