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Scarsità

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Scarsità

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A Tokyo nel quartiere di Ginza c’è un negozio molto piccolo. È piccolo come una piccola stanza in cui potrebbe viverci una sola persona. Ha un tavolo al centro e la cassa sul fondo. Alle pareti c’è lo spazio per appendere qualche quadro e niente più.

Si chiama Morioka Shoten e vende un solo libro alla settimana1. Non che venda un oggetto libro ogni settimana: ne vende diversi ma son tutti lo stesso libro. Lo si potrebbe definire come un’espressione estrema di curatela: così precisa e puntuale da ridurre la selezione di un insieme di oggetti a un solo oggetto. Ma lo si potrebbe interpretare come la risposta più saggia ai tempi correnti in cui “Più” sembra l’unico atteggiamento esistenziale accettato:

Più scelta. Più opzioni. Più oggetti. Più colori. Più profumi. Più soldi. Più tutto.

La risposta all’abbondanza è uno. O meglio: è la scarsità.

L’abbondanza comunica una falsa illusione di infinito, e non è casuale che sia così bramata: è infatti una promessa di vita eterna. Sembra suggerire che, finché vi saranno opzioni disponibili, vi sarà la possibilità di scelta e quindi un simulacro della vita. Posso scegliere quindi posso vivere ancora indefinitamente.

Le ragioni dell’affezione all’abbondanza sono anche antropologiche: si tratta in fondo di una rappresentazione della ricchezza e cioè di un’idea di sicurezza, opposta alla precarietà della vita umana. Dato che una linea del nostro codice genetico riporta l’informazione della nostra fine, e dato che questa – fra tutte le linee di codice – è la più misteriosa e imponderabile, l’abbondanza pare una risposta accettabile e confortante all’instabilità della condizione umana. Fino a quando è possibile scegliere è anche possibile vivere, o avere l’illusione che il tempo possa essere estensibile a piacimento.

In fondo la condizione umana è un’eterna battaglia contro il tempo, che si sa essere una risorsa finita. Per combatterla va bene qualsiasi illusoria idea di abbondanza.

La scarsità è invece un concetto negativo perché evoca la privazione, la negazione, la carestia e la fame. Per questo dico che è antropologicamente conseguente che l’umanità sia così attratta dall’abbondanza.

In fondo l’abbondanza è una promessa di vita eterna, o una plausibile illusione che possa esistere.

Nessuno pensa che esista una soluzione alla fine della vita umana o la soluzione è solo illusoria, e quindi destinata a essere negata. L’illusione però può essere anche inconscia (mentre è conscia, ovviamente, la consapevolezza della finitezza dell’esistenza). In altre parole, si può desiderare di avere infinite scelte per confermare l’illusione di avere potere sulla morte mentre non ci si può che confessare che le cose stiano in altri termini.

Così, col tempo, ho abbracciato sempre più la scarsità. Non perché sia più furbo o intelligente (furbizia e intelligenza, mi si conceda un inciso, sono poi sempre più spesso confuse, e persone furbe e scaltre sono spesso confuse con quelle intelligenti, mentre l’intelligenza è tutt’altra cosa) ma perché ho capito che ha una qualità che la rende unica:

Se le cose abbondanti – in quanto abbondanti – hanno un valore unitario inversamente proporzionale al loro numero, quelle scarse ce l’hanno rispetto al loro valore. Ossia: le cose scarse, in quanto scarse, hanno un valore unitario infinitamente superiore.

Meno vi è di qualcosa, più elevato è il suo valore. È un principio economico che non deve nemmeno essere spiegato. Il valore di qualcosa è legato alla sua disponibilità e quindi meno ve n’è, più elevato è.

Se applichiamo questo principio alla vita umana, c’è una sola quantità che tende alla scarsità partendo dall’abbondanza: è il tempo. Appena nati ne abbiamo uno potenzialmente infinito (o almeno continuiamo a credere che sia tale fino a una certa età) mentre man mano che viviamo ne abbiamo sempre meno. Il tempo è una ricchezza non rinnovabile che tende a esaurirsi fino ad annullarsi con la morte.

C’è però un aspetto della vita umana che inverte la sua proporzione rispetto alla scarsità organica degli anni dell’esistenza: è il valore del tempo. Meno tempo c’è, più questo ha valore.

Se mettessimo il tempo della vita umana in un grafico che lo compara con il valore, questo sarebbe massimo all’allontanarsi dal suo punto di origine, cioè dalla nascita.

Da neonati abbiamo un capitale (di tempo) apparentemente infinito mentre invecchiando ne abbiamo sempre di meno.
Ma l’aspetto interessante di questa questione è che ciò che è perso in termini cronologici e anagrafici è acquistato in termini di ricchezza spirituale, o almeno così sarebbe auspicabile che fosse. Meno tempo vi è a disposizione, più esso ha valore.

Se dovessimo quindi costruire un grafico che pone il tempo e il suo valore in relazione, quest’ultimo sarebbe massimo quando è minimo il tempo. Meno ce n’è a disposizione, più ogni sua unità ha valore. Le giornate, le ore, i minuti.

Ecco che inaspettatamente la scarsità (di tempo) diventa una forza positiva perché dona valore al tempo stesso. Anzi è proprio in questa fase esistenziale che l’abbondanza appare più assurda: desiderare e avere di più è solo un modo per caricarsi di una zavorra inutile, con l’illusione che alleggerisca o che funzioni per ingannare l’avvicinarsi della fine. L’abbondanza, dicevamo, illude di poter acquistare giorni e ore in più ma solo la scarsità abitua a riconoscere che, proprio perché c’è un termine, tutto ha più valore.

Quella piccola libreria di Tokyo fa qualcosa di molto contemporaneo e anticiclico: in un’era di abbondanza e di spreco sceglie la scarsità e il limite. In una cultura che ha il terrore della morte, la riconosce dando valore a una sola cosa alla volta, una cosa che vale come tutto.

Quando compriamo l’abbondanza pensiamo di comprare il tempo. Quando compriamo la scarsità sappiamo di comprare un valore.

In quel luogo vendono libri (anche se un titolo alla volta) e non è casuale: i libri sono accumulatori di tempo, sono pozioni che lo contengono e lo imprigionano, sono vascelli su cui accelerare o rallentare la vita.

I libri insegnano che non puoi comprare il tempo ma puoi comprare il suo valore.

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