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Rettangolo

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Rettangolo

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Dopo un po’ che meditavo – dopo qualche mese – mi accorsi che le visualizzazioni che mi capitava talvolta di fare avevano qualcosa di irritante. Un paio di cose, a dirla tutta: il punto di vista era sempre il mio e il campo visivo era pressapoco quello che avrei potuto sperimentare nella realtà.

Non so bene cosa mi aspettassi di trovare di diverso: una visione sferica? Multidimensionale, forse? Si trattava magari di inesperienza? Magari praticando con più assiduità sarei riuscito non solo a vedere contemporaneamente in ogni direzione – a visualizzare, pardon – ma anche a non essere per forza al centro della visione, pur se non visto. Volevo abbandonare il mio punto di vista e volevo non essere io.

Volevo vedere come se fossi stato un qualsiasi punto nello spazio della visualizzazione. E possibilmente senza essere io. Volevo disintegrarmi.

C’era qualcos’altro che mi infastidiva: erano i margini del campo visivo. L’occhio umano vede all’incirca all’interno di un campo visivo di 130°. Arriva fino a 180° ai margini, e ciò che vede in quelle regioni è solo una ricostruzione plausibile della realtà. Non la vede davvero, ma il cervello è sofisticato a tal punto da persuadersi di vederci qualcosa.

Interessante strumento, il cervello. Così potente da elaborare una realtà non percepita direttamente e considerarla plausibile, anche perché tale è: plausibile ma non davvero vista.

Comunque: restava il fatto che, chiusi gli occhi e guardando dentro la mia mente, continuavo a vedere un’altra dimensione, di certo più singolare e astratta, irreale e immaginifica ma pur sempre percepita visivamente come quella che vedevo a occhi aperti.

Un formato, una volta entrato nell’uso smette di essere una semplice cosa e diventa presto una categoria psicologica

Un giorno ho letto queste parole di Riccardo Falcinelli in “Figure”. Si riferiscono al motivo per il quale le cornici sono rettangolari o quadrate. Già: perché hanno geometrie elementari? Perché hanno quattro lati? La risposta più semplice è perché i quadri hanno quella forma. Eppure non spiega perché, appunto, hanno quella forma. Si obietterà che esistono pure cornici più complesse ed è vero: resta il fatto che quelle più diffuse – infinitamente più diffuse – sono quelle rettangolari.

Il motivo è che, a un certo punto, è invalso l’uso di quella forma per questioni economiche: le cornici rettangolari sono più semplici da produrre (richiedono l’assemblaggio di quattro pezzi invece che molti di più) e sono l’ideale se all’interno vi si deve stendere e fissare una tela.

Il passaggio più interessante di Falcinelli non è però questa spiegazione – indubbiamente gustosa – quanto la constatazione che un formato possa diventare un categoria psicologica. Cosa significa? Significa che noi non leggiamo libri di formato rettangolare e non guardiamo film su schermi rettangolari o scriviamo su fogli rettangolari perché i nostri occhi vedano all’interno di un campo rettangolare ma perché l’estensione del dominio rettangolare ci ha portati a vedere in questo modo.

Vedere rettangolare è diventato normale, pur non essendo naturale.

A dirla tutta non è che vediamo in formato rettangolare: il nostro campo visivo resta grossomodo una semisfera posta di fronte e attorno a noi. Quello che voglio dire è che ormai consideriamo naturale riquadrare la realtà.

Circoscrivendo parole e immagini e azioni all’interno di un riquadro, dimentichiamo che esistono parole e immagini e azioni anche all’esterno di quella finestra del campo visivo. O meglio: lo sappiamo ma non ci badiamo.

Ho il sospetto che quello che percepivo come fastidioso nelle mie visualizzazioni durante la meditazione fosse il suono della voce del resto del campo visivo (mentale) a cui prestavo poca attenzione. Io vedevo dentro un rettangolo, come se le visualizzazioni fossero parte di un film interiore proiettato, dopo essere stato evocato.

“Mettere una cornice” significa stabilire un limite e cioè escludere. È visibile solo ciò che è all’interno della cornice e il resto è alluso o immaginabile. Il che non significa che sia meno importante (a volte il fatto che non sia visibile è funzionale a dare sostanza a ciò che vi è dentro – basti pensare a un qualsiasi Caravaggio dove l’azione è densa nella scena, tanto quanto lo è al di fuori, in ciò che non è visibile ma che grava nella scena stessa) ma solo che si è operata la scelta di escluderlo. Nella fotografia è lo stesso: ciò che non è dentro il fotogramma è percepibile come assenza, e ogni assenza è una presenza, quantomeno nelle buone fotografie.

Resta quel tarlo, e non sta nemmeno rosicchiando una cornice di legno ma piuttosto la mia mente: come vedremmo se non ci fosse la cornice? Come vedremmo se non vedessimo ormai per abitudine solo in formato rettangolare?

Mentre scrivo ascolto il Trio dell’Arciduca di Beethoven. Ho un’illuminazione: in termini spaziali, la musica ha un volume e occupa uno spazio che avvolge, quindi non può essere costretta in una cornice. La musica mi fa pensare a ciò che potrebbe essere il nostro campo visivo se il rettangolo non ne avesse stabilito dei limiti. Non che sia una sua colpa, povero rettangolo. Mi chiedo solo come percepiremmo la realtà se fosse come una musica. Se provenisse da ogni punto dello spazio, se potessimo vederla nella sua interezza. O, all’opposto, mi chiedo se esista nella musica la categoria psicologica – per dirla alla Falcinelli – del formato rettangolare. Esiste una cornice nella musica? No, mi pare proprio di no.

Nelle mie meditazioni ascolto musica o suoni, più che altro. Se ascoltassi mentre medito il superlativo e già citato Trio dell’Arciduca (grazie Beethoven, sempre grazie) ne seguirei le note e mi distrarrei. Nel meditare il suono serve a creare un ambito mentale distinto da quello reale, serve a predisporre la mente alla meditazione. O almeno così lo uso io. Eppure le visualizzazioni sono solo appena oltre il limite del rettangolo: occupano la già citata semisfera ma non sono dietro o sopra o sotto di me. Il potere visivo della mente è più limitato di quello sonoro, o le informazioni da elaborare sono troppo complesse perché la mente le possa processare senza impazzire.

Forse la musica agisce a un livello più istintivo e che richiede meno potere computazionale e mentale. Viene percepita e basta, e con lei lo spazio fisico che riesce a creare. Le immagini occupano più spazio, sono più complesse, devono essere circoscritte per limitare il numero dei dettagli e per concentrare l’attenzione in un punto e su una scena delle infinite possibili.

Attorno c’è il rettangolo verso il quale non ho astio alcuno. Mi chiedo solo cosa succederebbe se non ci fosse, e non lo so immaginare.
Forse dovrei iniziare a non esserci io, per capire cosa resta del tutto.

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