Ebbi una prima esperienza della conseguenza delle parole quando ero al liceo. Non ricordo esattamente in che anno ma ricordo che quello che scrissi nel giornale scolastico mi procurò un incontro molto ravvicinato con alcune persone che se ne sentirono offese.
Avevo scritto un articolo che ironizzava sui comportamenti di un gruppo – specie in merito a come si vestivano – in maniera tutto sommato leggera. La cosa non piacque a questi gentiluomini che pensarono meritassi una punizione, nonostante non li avessi nemmeno citati per nome. Si erano sentiti chiamati in causa, autodenunciandosi ironicamente per quelli che dicevo fossero.
Mi affrontarono in pubblica piazza – io solo e loro in 7 o 8 – e presero a tirarmi calci e minacciare punizioni indicibili. Non ricordo più molto bene, ma ricordo solo un dettaglio che mi fa ancora ridere. Prima che iniziassero a menarmi dissi a un paio di loro “Almeno fatemi togliere gli occhiali”. Li tolsi e me le presi finché un signore (che ancora ringrazio) non venne a dividerci. Cioè, a salvarmi.
Potrei dire che da allora mi sia guardato bene dal criticare qualcuno in pubblica sede ma, ahimè, mi ripetei altre volte, anche se mi evitai la violenza fisica. Almeno quella.
Di certo imparai una lezione, anche se mi era stata impartita indirettamente:
Ogni azione ha una reazione, ogni parola può avere la forza di un’azione e ogni opinione deve essere espressa con responsabilità. In altre parole: le opinioni non sono gratuite e possono avere conseguenze. Ed è giusto sia così.
Non che quella volta le mie opinioni meritassero una punizione simile (le opinioni non meritano mai punizioni del genere) ma piuttosto che avessero una conseguenza. Le conseguenze sono proporzionate e conformate a chi le elargisce, e in quel caso non mi andò benissimo.
Però imparai anche un’altra cosa: che un criterio di opportunità nell’esprimere un’opinione è se la si pronuncerebbe tale e quale di fronte all’oggetto dell’opinione stessa.
Perché non si direbbero mai, di persona, a uno sconosciuto, parole tanto feroci quanto quelle che alcuni si sentono liberi di pronunciare online? Il motivo credo sia da ricercare nel fatto che la presenza fisica crea, fin da subito, un legame che annulla le distanze.
In rete si ha invece la sensazione che vi sia uno spazio infinito fra aggressore e aggredito e ciò stempera il senso di responsabilità e il timore delle conseguenze.
Non ci si preoccupa del dolore inferto o dell’oltraggio: non si vede, non si sente. In questi casi, il senso di responsabilità dovrebbe sostituire il contatto umano che manca: se la distanza è infinita (come accade in rete), l’unico modo per stabilirla è assumersi la responsabilità delle proprie azioni. Immaginare di dire quella cosa in presenza della persona, insomma.
La responsabilità in fondo è la capacità di immaginare che qualcosa esista anche se non sta accadendo, considerandone nel contempo le conseguenze.
Mantenere comportamenti corretti anche senza che nessuno li noti (non infrangere le regole della strada, non rubare, pur nella consapevolezza di poter restare impuniti). Essere responsabili significa avere coscienza della conseguenza delle proprie azioni.
“Responsabilità” deriva del resto dal latino “rispondere di qualcosa”, evoluto poi in “poter dare conto di qualcosa”, assumersi insomma l’onore di un’azione. È evidente che questa viene meno quando non esiste autorità a cui rendere conto né è visibile (vicina) la persona a cui l’offesa è rivolta.
I social hanno polverizzato le distanze. Tutto e tutti sono a distanza nulla da tutti (tutti sono ugualmente raggiungibili, o quasi) ma tutti sono altrettanto distanti, all’infinito, dato che non c’è prossimità corporea. Non si occupa lo stesso spazio e chi offende e chi è offeso non respirano lo stesso ossigeno. Per non citare poi il fatto che ci si sente protetti dall’anonimato, che ha un senso nel caso si scontrino due poteri di forma e peso diversi (il singolo cittadino e il governo, per dirne una), da cui potrebbe scaturire una reazione eccessivamente punitiva per il singolo. Nel caso invece di due individui che conversano e le cui opinioni hanno lo stesso peso, l’anonimato è piuttosto un bieco strumento dietro cui il violento pavido si nasconde, per restare impunito.
L’esito dell’azione (dell’offesa) non è percepibile se non attraverso l’eventuale reazione. Non intendo con ciò dire che la persona verbalmente violenta è da assolvere, quanto che se avesse senso di responsabilità molto probabilmente non offenderebbe mai, o non di certo in presenza dell’altra persona.
Ecco perché trovo che al discorso sulla libertà di espressione manchi spesso un dettaglio: la libertà di esprimersi non dovrebbe mai venir sola ma dovrebbe essere accompagnata dalla responsabilità nel farlo. “Puoi dire ciò che vuoi, assumendoti la responsabilità di quanto dici”, che è poi quello che accade quando si esprime un’opinione o si profferisce un’offesa in presenza dell’oggetto o della persona cui questa è rivolta.
Una libertà deresponsabilizzata è troppo comoda: può ferire e non venir mai sanzionata.
Storicamente, la condanna per chi si macchia della gratuita offesa a un membro della comunità è l’esclusione dalla società. Millenni dopo la formazione dei primi nuclei di società – le tribù e i villaggi – continuiamo a confrontarci con il terrore di essere esclusi dalla vita comune per un reato o perché ci si è macchiati di un’azione non commendabile. Se tutti lo facessero, non servirebbero controlli o censure per arginare i discorsi d’odio, perché non esiste altro strumento – o perlomeno non ne conosco altri – quando mancano la distanza fisica e la paura di ripercussioni immediate.
Il timore di essere esclusi – che ha un riferimento neanche troppo velato nell’atavica paura di non essere amati e quindi accettati – è ancora un potentissimo motivo che informa i comportamenti umani. Spesso anche quelli di chi ne pare più immune: anche chi ha un potere inusuale – come politici, militari, miliardari – è terrorizzato dall’idea di non essere amato, anche se non lo ammetterebbe mai. Tanti comportamenti razionalmente incomprensibili di queste persone hanno spesso una ragione d’essere se interpretati come richieste di attenzione.
L’ostentazione del denaro è una disperata richiesta di accettazione e una dimostrazione di capacità di provvedere al fabbisogno e alla salute della famiglia. L’ostentazione del potere segnala la capacità di difendere i più deboli dai nemici e dai pericoli. L’ostentazione della violenza segnala la capacità di sopraffare chi minaccia la comunità. Uso il termine “ostentazione” per dire di un comportamento eccessivo che non nasconde nemmeno bene le reali intenzioni: c’è differenza fra l’esercizio del potere e l’ostentazione dello stesso, ed è facile capire quale azione abbia risvolti positivi per la società e quale sia una manifestazione degenere. Uso e abuso del potere, insomma.
Cambiano gli strumenti con i quali si cerca di ottenere attenzione e amore, che possono essere l’esercizio del potere o la leva economica. Alla base del nostro codice genetico c’è qualche riga di istruzioni che ci porta ad agire in modo da non essere esclusi, perché nell’antichità essere allontanati dalla comunità significava quasi sicuramente morire. Si può cercare l’accettazione nell’essere accondiscendenti o imporla, esercitando potere e sopraffazione.
In altre parole, vogliamo essere amati per paura di morire. O per timore che, non essendolo, potremmo morirne. Gli strumenti per riuscirvi sono spesso sbagliati: si ottiene amore con l’amore, ma molti pensano – magari inconsciamente – che il potere e il denaro siano mezzi altrettanto efficaci. Ma sono mezzi, strumenti, appunto: non sono fini. Se gli strumenti vengono travisati per fini, finiscono per governare chi li usa e chieder loro pegno. Potere, denaro, violenza e sopraffazione alimentano sé stesse e non producono amore, comprensione e accettazione.
La responsabilità nell’esprimere opinioni, nel dire le cose, è inoltre proporzionale al ruolo ricoperto nella società. Siamo tutti idealmente uguali ma la mia opinione è diversa (ha conseguenze diverse) da quella di X o Y, infinitamente più potenti di me.
Un fenomeno pericoloso ma ormai consolidato che si osserva è invece la totale deresponsabilizzazione di chi ha potere ed esprime opinioni oppure offende, non curante del potere che ha, o anzi, esaltato e accecato da questo.
Quanti politici, imprenditori e figure pubbliche che ricoprono incarichi che richiederebbero una gestione molto attenta della responsabilità si comportano in maniera dissennata e incurante delle reazioni e delle conseguenze che le loro parole provocano?
La responsabilità ha insomma divorziato sia dall’onore che dall’onere di poter esprimere opinioni, e dal dovere di conoscerne le conseguenze quando si ricopre una carica di potere.
La responsabilità è un principio di realtà: limita la possibilità di esprimersi dato che rende manifeste le conseguenze dell’espressione individuale. Dà una forma alla reazione al punto di vista individuale. Definisce ciò che è offensivo e lecito dire in società, ci definisce come membri di una comunità.
Essere preso a calci in piazza non è una reazione proporzionale alla libera espressione di un’opinione, siamo d’accordo, ma non assumersi la responsabilità del proprio pensiero e della sua manifestazione è un’altra risposta sbagliata a un problema reale e atavico: non si può vivere armoniosamente in una comunità senza accettarne le regole.
Si può esserne fuori e quindi non esserne protetti. Accettare e includere è un modo per distribuire sostegno e amore, escludere non è un’espressione di vendetta ma piuttosto è un meccanismo di difesa della comunità. Chi vuole esserne parte deve farlo responsabilmente e accettarne le conseguenze. Le parole pesano, le parole creano la realtà.