Senza essere evocata, era riaffiorata una memoria a cui non pensavo da decenni. Ho ripensato alla barca di mio zio. Ci andavo da adolescente, quindi parecchio tempo fa.
Non ne ricordavo esattamente la forma ma ricordavo con precisione incredibile i dettagli, avrei potuto ridisegnarli: il bordo rialzato del tavolino del quadrato, quella cornice fatta per evitare che il rollio facesse scivolare a terra gli oggetti; il disegno dei pannelli del pavimento (in noce, forse, e le fughe in teak chiaro, o bambù); i paioli del pozzetto, che erano incernierati allo schienale e si sollevavano per poter lavare la seduta; la cromatura dei winch lievemente scrostata dalla salsedine in alcuni punti; la consistenza della randa e la superficie di alluminio dell’albero maestro. Mi sono ricordato solo dopo che di alberi ne aveva due. E come era scritto il nome, con che caratteri? Forse a semplici decalcomanie, senza estri particolari (l’importante è non cambiare mai il nome delle barche, e quello era il nome deciso dal fantomatico proprietario precedente, sibillinamente e ieraticamente definito “L’Ingegnere”). Ricordo anche gli strumenti che c’erano ai lati del boccaporto che dava accesso al quadrato (ma si chiamava poi boccaporto?): erano coperti da una tavoletta che sporgeva di 10 mm dal bordo, era in teak pure quella, aveva gli angoli stondati. Ne sentivo la superficie sui polpastrelli delle dita, come se li stessi accarezzando in quel momento.
In questa evocazione della memoria mi sono tuffato, ho sentito l’acqua che mi inghiottiva, quel ritorno (ecco: ritornavo a casa, cioè all’acqua, al mare) e poi ho ricordato i pomeriggi, all’ombra, a leggere un libro, cercando di ricordarmi se allora mi annoiavo, o cercando di ricordarmi come si fa ad annoiarsi.
Poi ho aperto gli occhi e ho pensato che la memoria si misura in distanze.
Non sono distanze fisiche e non appartengono nemmeno al mondo reale: sono distanze che possono essere infinite e incommensurabili (quando non ricordi più qualcosa in verità non la riesci più a vedere nella memoria), oppure brevissime, che le puoi afferrare con una mano perché ti stanno davanti agli occhi, sono qui e ora. Come la barca in cui ho passato diverse estati, a cercare di vedere il sole aprendo appena le palpebre, finché faceva male e le richiudevo o guardavo altrove.
Anche guardare il mare significa misurare una distanza. Guardiamo l’orizzonte e ci aspettiamo sempre una risposta. Gettavo in acqua domande e mi aspettavo risposte. La linea dell’orizzonte stava sempre là, distante e vicina, cerchi di raggiungerla a remi o a nuoto ma si sposta sempre: è troppo distante.
Il mare tace, o meglio: non parla. Romba, sciaborda, gorgheggia, pulsa, stilla, sibila, gracchia, stride, fruscia e scivola ma non usa parole. Per quello non risponde alle domande che gli getti dentro ma restituisce solo silenzi. Il mare è uno specchio e non sa o sa tutto: riflette te stesso che gli fai domande perché non vuoi risposte ma non ne ha e ti rende un silenzio, un’impossibilità di dire cosa c’è nel futuro. La distanza è infinita.
Il tempo si misura in distanze, in metri temporali. La memoria è un insieme di frammenti che vengono spinti distanti dalla mente o vicinissimi: vengono evocati e ricordati, fino a tenerli in una mano per osservarli.
Ho scoperto un giorno meditando che potevo evocare i sapori e le consistenze dei cibi. Potevo ordinare da un menu mentale una fragola e quella si materializzava nel gusto e nella consistenza e la potevo mordere e sentirne il succo dolce. Poi evocavo una fetta di pizza margherita e ci affondavo i denti che incontravano la mozzarella e la salsa di pomodoro. Pensavo a che dieta incredibile avevo scoperto: potevo godere dei cibi senza mangiarli, l’esperienza era identica. Qualsiasi cosa avessi mai mangiato la potevo mangiare ancora, nella memoria. Lo stomaco non era d’accordo ma la mente era placata.
Non so se c’entrasse la meditazione ma mi accadde mentre meditavo. Così come da una visione di un’altra meditazione è riaffiorata quella barca e vi ero ancora una volta a bordo: ne accarezzavo le superfici e sentivo il calore dei suoi legni scaldati dal sole d’agosto.
Ho sempre accarezzato gli oggetti. Sentirne la consistenza e la resistenza al tatto è una forma di conoscenza. Ne ho costruito un catalogo minuzioso (deve essere lo stesso che consulto quando evoco una pesca o il meltemi che in Grecia quell’estate soffiò per settimane intere). Sapere come rispondono al tatto è un modo per collocarmi e sapere dove sono, su cosa poggio. È, ancora una volta, un modo per annullare le distanze (un polpastrello posato sull’intonaco di una casa è un modo per azzerare la distanza da quella superficie).
Una distanza nulla non smette di essere una distanza.
In verità. ho pensato di scrivere qualcosa sulla distanza perché è una misura di ciò che può stare fra me e altro, fra il silenzio che bramo e il rumore attorno. Ho ripensato a “La giusta distanza” di Carlo Mazzacurati. Parlava della distanza che il giornalista deve avere dagli eventi, per conservare un giudizio sereno e lucido. La distanza in questo caso è la misura della cautela e del giudizio, è la pausa prima della parola, è l’indugio. Nel cercare le parole per dire qualcosa (nel silenzio per farlo) non esiste il verbo, inteso in senso biblico come la parola, appunto. Le parole sono tali se non sono ancora proferite? Una parola è tale solo se è detta o anche se è solo pensata?
La distanza è la misura fra la parola pensata e quella detta. Fra le parole che ci stanno attorno e che arrivano da ovunque e quelle che abbiamo dentro, silenziose.
Scrivevo in “Mappa” della relazione tra distanza, tempo e memoria. Man mano che il tempo aumenta, aumenta anche la distanza dei ricordi dal centro della nostra mappa mentale, spingendoli in regioni inesplorate. Distanza e tempo quindi sono due funzioni dell’equazione della memoria e insieme descrivono in termini pseudomatematici la mappa mentale.
C’è da qualche parte una mappa, solo che la percorriamo al buio perché è mentale e temporale allo stesso tempo: di questa mappa sono oscurati il passato e il futuro ed esiste solo il presente, ma è il punto su cui sostiamo. Descrive un territorio che è stato visto nel passato e non ancora visto nel futuro. È una mappa temporale, appunto.
Ritorno al mare. Il mare dice della sua infinità, la montagna invece inganna: lo sguardo si posa su ogni sua cima e crede di capire quanta distanza vi sia fra di loro e fra esso e quelle. Le montagne fanno credere, il mare dice di essere infinito: mostra la sua fine e la chiama orizzonte, ma è in un luogo a distanza infinita. Ma te lo confessa (è l’unica cosa che ti dice, perché alle domande non risponde ma questa cosa – l’unica – te la dice subito).
Fra le montagne e il mare si può solo scegliere l’inganno o l’infinito. La disillusione e l’illusione.
Ho il sospetto che, alla fine, entrambi dicano di non avere risposte e che è anche protervo pretenderne. Loro stanno e basta. Esistono. E non è poco e potrebbe bastare.
Forse le risposte non sono nel presente ma nella memoria. Quando si annulla quella distanza prende vita la risposta. È la superficie scabra dei legni della barca, è il suo metallo reso incandescente dal sole violento delle estati di decenni fa. Nella memoria le cose rievocate sono più reali di quanto lo fossero quando le si toccò e sfiorò tanto tempo fa.
La memoria è la verità, o almeno una verità, o una risposta possibile. Quella dell’onestà delle cose, che stanno e fanno quello che solo san fare: esistere.