Quando compose I trawl the Megahertz, Paddy McAloon – il leader dei Prefab Sprout – era convalescente da un distacco della retina. Non poteva usare gli occhi e quindi scansionava le onde radio, ascoltando ciò che il suo apparecchio raccoglieva. La radio è una voce e un suono ma è prima di questo un orecchio. In quel tempo in cui poteva affidarsi solo a quel senso, fu il suo orecchio. Ascoltava, annotava, registrava.
Porzioni di quanto colpì la sua attenzione in quel tempo divennero parte di I Trawl the Megahertz – cioè “scansiono i megahertz” -, pubblicato nel 2003. Accadeva qualche anno dopo la malattia.
La prima traccia è una lunga suite di 22 minuti composta da ampi e ariosi archi e da una voce di donna che parla al figlio. Si sente solo lei e si intuisce che stia rivolgendosi a un bambino o a una bambina. È rassicurante e rasserenante, dolce e materna, anche se tradisce un’apprensione che non vuole trasmettere ma che affiora. La fusione fra voce e arrangiamento orchestrale è perfetta.
22 minuti è quanto ci metto a piedi dalla stazione di Bologna alla facoltà. Circa. Scoprii questa composizione casualmente mentre ascoltavo altro. Ricordo che sentii i primi archi passato il semaforo, quello di fronte all’uscita secondaria della stazione verso Corso Marconi. Quel semaforo pedonale dura sempre troppo ma I Trawl the Megahertz iniziò durante l’attesa e finii mentre attraversavo i viali ai piedi dei colli, a sud. Fu un viaggio magnifico e inaspettato.
Siamo noi stessi delle radio?” mi chiedo a volte. Mi chiedo se prestiamo ascolto a voci e stimoli che provengono da ovunque per tentare di carpirne una udibile, una che porta un messaggio.
L’era dell’informazione – ritorno sull’argomento – è ricca di stimoli e povera di significati. L’abbondanza di segnali non aiuta la comprensione del mondo. O almeno non aiuta me. Se leggo e ascolto – se scandaglio le onde dell’informazione, non capisco niente di più, mi riempio solo come un vaso che tracima ben presto. Resto vuoto.
I Trawl the Megahertz era – posso immaginare – un modo per cercare un senso ma anche, curiosamente, l’esito della privazione di uno dei sensi. Vedendo meno o affatto con la vista, McAloon aveva iniziato a vedere con l’udito. Quella traccia è il racconto di quel viaggio, dell’esplorazione dello spettro delle onde radio.
A volte mi dico che solo due angeli come Damiel e Cassiel potevano sopportare di ascoltare tutti i pensieri dei berlinesi in Il cielo sopra Berlino. Come si potevano sostenere i lamenti, i ragionamenti disarticolati, i frammenti di discorsi amorosi e odiosi, i mozziconi di frasi, le esplosioni lessicali di ira o i sussurri di milioni di persone, contemporaneamente?
Come sempre, le opere d’arte anticipano i tempi. Non so se Wenders volesse parlare di quelli che sarebbero venuti dopo qualche decennio, quando avremmo ascoltato e letto i borbottii del mondo, i pensieri lineari e cristallini di pochissimi e i rigurgiti di fastidio di moltissimi, i cigolii e i rantoli di milioni: quello che possiamo leggere tutti i giorni, se frequentiamo certi luoghi.
Ci vogliono degli angeli per avere la compassione di ascoltare e lasciare che certe parole nuotino nell’etere, alcune per chilometri e dimensioni, altre schiantandosi a terra, dopo poco. Chissà come ascoltavano le suppliche e le richieste di quelle moltitudini, Damiel e Cassiel. Cosa fecero poi? Non lo ricordo più, vidi troppo tempo fa quel film.
Delle storie ricordiamo dettagli, meno spesso l’arco narrativo. Ai dettagli ci appigliamo come alle sporgenze di una parete rocciosa, se scalassimo. Ricordiamo ciò che ci può salvare, salviamo il ricordo di un particolare di una storia che ce la fa ricordare. Quello che ricordiamo è quello che ha un significato, ciò che ha risuonato in noi. A volte lo ricordiamo perché ha risposto a una domanda, a volte lo ricordiamo e basta.
Gli angeli stavano sulla Colonna della Vittoria, a Berlino, e offrivano le loro orecchie a milioni di voci. Solo i bambini e gli ex-angeli (come Peter Falck, che li poteva però solo percepire) li vedevano, perché gli angeli sono bambini, o viceversa. Sarà stato questo il motivo, poi? L’ho ricordato così, e ogni attimo del presente diventa un ricordo individuale per chi l’ha vissuto. La verità ontologica esplode in mille frammenti e chi vi è stato immerso ( ha vissuto) ne conserva uno diverso.
Forse è questo il motivo per cui si parla di post-verità, anche perché ci viviamo da molti anni ormai, forse di più di quanti immaginiamo. La verità non è più da tempo uno splendente cristallo ma piuttosto un opaco manufatto, che trascina con sé il suo contrario e le sue negazioni. L’evidenza dei fatti non ha più alcun valore perché di fronte alla loro ineluttabilità non si nega nemmeno che siano veri e presenti: si nega che esistano, non li si considera più.
I frammenti in cui esplode la realtà ontologica, diventando esperienza e ricordo individuali, non riconducono più alla sua interezza: non è più possibile ricostruire la verità dalle sue parti, ma può essere invece negata, o meglio ignorata.
Da tempo, accettato che viviamo nell’età della post-verità, non mi chiedo più cos’è e che danni provoca ma voglio capire cosa ci sarà dopo. Se ogni sistema di valori non ha più senso, che senso si può costruire? I valori sono condivisi, devono esserlo ma per affermarsi e dare una forma alla realtà chiedono responsabilità. Ecco come è morta la verità: scollando le azioni dalla responsabilità di chi le compie, non curandosi delle conseguenze di ciò che si è operato.
Si accusa, si denuncia, si fa e si agisce e poi, quando l’azione produce una reazione, si ignora che è l’esito di un gesto individuale o collettivo. La morte della verità esiste solo quando azione e responsabilità sono separate.
Ovviamente non posso sapere cosa verrà dopo. La post-verità sarà (è già, forse) il fondamento del dominio della menzogna? Del crollo di qualsiasi valore? Dell’atomizzazione di un sistema di riferimento condiviso chiamato “realtà”?
Per molti versi attendo un altro scenario: la Vendetta della Verità. Attendo che torni a ristabilire almeno la linea di base, cioè il Principio di Realtà.
Sono sempre un inguaribile ottimista, che, secondo Čechov, “è un pessimista mal informato”.