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Noia

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Un giorno mi stavo annoiando. O meglio: stavo facendo cose che mi annoiavano. Allora ho fatto quello che molti fanno quando si annoiano. No, non ho tirato pietre dai cavalcavia: ho scorso la timeline di Instagram e ho visto un occhio, disegnato in maniera molto geometrica, come questi qui sopra. Quando componi con elementi geometrici, un occhio viene pressapoco sempre così e la sua forza iconografica è che non può essere confuso con nient’altro. Certe forme – specie se viste distrattamente – possono evocarne altre ma un occhio no: un occhio evoca un occhio, occupa un intervallo simbolico piuttosto ristretto. 

Comunque: senza pensarci molto ho aperto l’app di disegno vettoriale e mi sono messo a disegnare occhi. Volevo farne un poster, ne ho un’intera collezione che è fatta solo di disegni vettoriali senza nesso fra di loro, si chiama non a caso Unici. Man mano che disegnavo questi occhi e li disponevo sopra una griglia ho iniziato a introdurre in ognuno qualche variazione: le palpebre un po’ più socchiuse, uno sguardo un po’ più sospettoso e diabolico, le pupille di colori diversi e che guardano in direzioni diverse. 

Del nostro corpo possiamo vedere quasi ogni sua parte ma senza uno specchio non possiamo vedere i nostri stessi occhi. Con cui, tra l’altro, vediamo. Sarà per questo che ne siamo così tanto attratti? 

Questo era un piccolo racconto personale che parlava di come un atto creativo fosse nato dalla noia. Molto spesso lo stimolo che viene da un’osservazione laterale (come il feed di Instagram) resta una vibrazione impercettibile nella nostra giornata ma non quel giorno, quando ho immediatamente deciso di dedicare i successivi 15-20 minuti a disegnare occhi. Durante i quali non ho riprodotto fedelmente quell’occhio che mi aveva ispirato ma l’ho moltiplicato e ho introdotto delle variazioni (atto creativo).

Mentre li modificavo pensavo anche che mi diverte sempre cogliere il lato divertente delle cose, e quegli occhi si prestavano bene. Si stavano animando, erano vivi, pur essendo decisamente stilizzati e geometrici.

Non mi capita mica sempre. Spesso vedo qualcosa di interessante e lo salvo fra le note. Ho una cartella chiamata “Ispirazioni”, nel senso che contiene cose che potrebbero ispirare dell’altro. Ci guardo mai? No, però so che c’è, e mi sta bene così.

Si diceva: la noia. Mi è capitato di pensarci nel caso della storiella di prima perché la sensazione di non aver voglia di fare niente era molto forte, così come mi ha stupito la velocità con cui ho iniziato a tradurre in disegno quello che era solo un lampo cerebrale. Non posso che collegare le due cose anche perché la mente si alimenta proprio di cose che vede ai margini del proprio campo visivo. Anzi, quello che sta al centro è destinato a subire un calo d’attenzione piuttosto repentino poco dopo che gli prestiamo attenzione. 

La noia è insomma la condizione durante la quale il campo visivo mentale è popolato da tutto ciò che normalmente è alla periferia della vista. Tutto acquista la stessa importanza e niente emerge, tutto ha eguale importanza e nessuna. Mi immagino la noia come una giovane fanciulla che raccoglie fiori in un prato. O meglio: lo fa la mente, mentre si annoia.

Il fatto è che avremmo bisogno di annoiarci più spesso. Di coltivare la noia, di incentivarla, di fomentarla. 

Alla fine la mente ha un funzionamento molto semplice in alcune sue applicazioni: sa concentrarsi su un compito molto specifico sino a trasformarlo in una specie di ossessione esecutiva ma è altrettanto stimolabile quando non pensa niente di particolare. Quando si annoia, appunto. 

Anzi: direi che i momenti più creativi sono proprio quelli in cui non si applica a niente di particolare e allora riesce a scorgere connessioni ed epifanie. A ben pensarci vediamo figure nelle nuvole solo quando smettiamo di pensare che sono nuvole. Spesso, quando capita, ci stiamo anche annoiando. Tipo: mentre cammino e magari mi annoio, e quindi guardo le nuvole. E ci vedo animali o cose.

Niente è creato dal nulla

La noia è quindi collegata alla creatività. Non è l’atto creativo in sé ma fornisce spunti. È un punto di partenza o un ambiente adatto a svilupparla. Curioso che una cosa che è all’opposto della creatività (in quanto atto positivo, che genera cose e significati) ne favorisca lo sviluppo. Del resto la creatività è ricombinazione di cose esistenti, attraverso una grammatica diversa, a volte inventandone una nuova. Basti pensare al detersivo Brillo o alla Campbell’s Soup di Warhol. Direi anzi che quando cambia il contesto cambiano i significati delle cose e questa magia è opera della creatività. Che, appunto non crea niente dal nulla, niente di veramente nuovo e mai visto, quantomeno nella sua interezza (nelle sue parti, ovviamente, sì).

E nel fatto che non esista una creatività pura, capace insomma di generare dal nulla, è alla base di uno degli equivoci più fuorivianti dell’arte e della cultura: quello dell’originalità, e cioè che qualcosa debba essere originale (mai esistito prima) per avere qualità e dignità. Tutto invece deriva da qualcosa altro e niente ha origine da se stesso.

Che non si possa inventare davvero niente di nuovo è una cosa che mi convinse ormai molti anni fa che non aveva senso essere creativo, ammesso che potessi esserlo. Non lo ero e basta, la mia carriera artistica era finita prima ancora di iniziare. A ciò si aggiunga che crescere in Italia presenta un altro inconveniente: si è circondati da una tale bellezza che si finisce per convincersi di almeno due cose: 

  1. Tutto è già stato fatto
  2. Non si può competere, bisogna solo ammirare.

Sono due tesi, a modo loro, entrambe vere. Solo che il loro risultato non dovrebbe comportare l’inedia creativa, eppure lo fa, o almeno nel mio caso. La mia (nostra) stupenda cultura visiva, pittorica, letteraria e musicale mi (ci) aveva relegato al solo ruolo di osservatore/contemplatore. Il creatore era altrove, probabilmente morto. Decisamente morto anzi, a giudicare dall’età delle sue opere. 

Poi vidi con gli occhi dei miei figli e mi ricordai di come disegnavo e vedevo alla loro età. Gli occhi inesperti e nuovi non hanno filtri e non vedono solo la realtà: sovrapposta a essa vedono altri significati, altre cose. Ciò che vedono non si limita a essere ma assomiglia ad altro. Improvvisamente la frase di Picasso aveva un senso: per disegnare come un bambino ci vuole una vita intera. Forse perché devi ricordare come lo facevi, devi togliere uno alla volta i filtri che ti hanno fatto vedere la realtà in un solo modo.

L’occhio adulto ha perso gran parte di queste capacità e vede cose a una sola dimensione: quella del loro significato oggettivo.

Allora ho capito (o forse ho ricordato) che l’atto creativo non riguarda solo le cose – artistiche o meno – ma i loro significati. L’arte aggiunge significati o, come mi piace chiamarli, oggetti mentali. D’altro canto anticipa il futuro perché lo descrive (descrive ciò che vede nel futuro l’artista) ma, non avendo a disposizione una lingua abbastanza dettagliata, se l’inventa.

In definitiva parliamo sempre di linguaggi artistici. Non è causale, dato che l’evoluzione dell’arte è ritmata dal progressivo definirsi di modi diversi e nuovi di dire le cose. Di nominare il mondo. 

E tutto questo lo pensavo annoiandomi. Cioè, voglio dire che a questo serve la noia: a sentire il rumore elettrostatico di fondo di un linguaggio non ancora espresso o parlato che vuole farsi ascoltare. Forse non si crea niente: si trascrive qualcosa che si sente in sottofondo. O lo si guarda, con degli occhi che ti stanno a guardare o che guardano. 

Ho disegnato degli occhi, non è stato un caso.

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