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La medicina Murakami

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La medicina Murakami

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Murakami andrebbe letto come un antidoto, non solo come un libro. Non bisognerebbe pensare di leggerlo e basta, come si legge un altro libro: bisognerebbe pensare di prendere una medicina, forse uno stupefacente.

Quando la realtà è intollerabile bisogna prendere in mano un suo libro e seguire le sue parole. Non conducono in un luogo preciso e non danno risposte ma ti sollevano dal contingente, ti portano altrove.

Se queste fossero parole scritte da Murakami, ora apparirebbe una botola nel pavimento di fronte a noi, forse in un angolo. Nessuno ci aveva mai fatto caso, forse era lì da sempre, forse è apparsa solo ora. Gli elementi di surrealtà di Murakami – come la pistola di Checov – appaiono sempre per un motivo, non vanno mai sprecati. In quella botola ci si infilerà qualcuno: il protagonista ma con lui anche il lettore. Del resto il protagonista è il lettore stesso dato che Murakami scrive quasi sempre in prima persona. «Sto parlando di te, queste sono le tue parole» pare suggerire Murakami.

«Prima persona singolare» è il titolo di uno dei racconti che compongono questa raccolta ed è anche la voce di Murakami stesso (o quella del lettore, chissà). Lui stesso suggerisce che si tratti di racconti autobiografici ma non è questo il punto: che lo siano o meno, l’elemento che li lega è l’apparizione di qualcosa di inspiegabile, in ognuno. La componente surreale e fantastica è sempre stata tipica dello scrittore giapponese: interi suoi romanzi si svolgono su piani paralleli che si intersecano e sovrappongono, si sovrastano e si sottomettono l’uno all’altro. Ogni sua narrazione parte da elementi di realtà quotidiana che, a un certo punto, diventa surreale. La particolarità della surrealtà di Murakami è che è altrettanto credibile: il tono della prosa è lo stesso, il ritmo non muta, l’incredulità non è sospesa ma anzi acuita proprio in questi fraseggi.

È facile intuire che per lui un piano e l’altro si equivalgono. Quello reale è una convenzione a cui tutti aderiamo (tutti chiamiamo quadrato il quadrato e rosso il rosso) mentre quello surreale è altrettanto presente, solo che è lievemente scostato o sta oltre una botola o dietro una porta che nessuno aveva mai notato. A un certo punto si apre sempre un varco e non resistiamo al desiderio di scoprire cosa vi sia oltre.

Oltre c’è ancora la realtà ma con altre regole, con una gravità diversa, con un’atmosfera alterata o semplicemente adatta a quell’ambiente.

In questi racconti – in ognuno di essi – accade sempre qualcosa che è normale eppure inspiegabile: Murakami va a trovare la sua ragazza ma non la trova e parla per ore con il fratello che non sapeva neanche esistesse (e della cui realtà ontologica dubiteremo per tutto il racconto), Murakami alle terme in una remota pensione del remoto Giappone incontra una scimmia parlante che ruba i nomi alle persone, Murakami parla per mesi di musica classica e di esecuzione della stessa con quella che definisce «la donna più brutta che abbia mai conosciuto» e della quale non sa niente, salvo poi vederla al telegiornale un giorno, arrestata con suo marito.

Nella prosa di Murakami non è mai sospesa l’incredulità ma semmai la verità. Si noti: non è negata né cancellata ma semplicemente messa in pausa. La verità non è oggetto di indagine ma lo è solo la realtà e la sua immagine traslata: la surrealtà.

C’è poi un altro elemento, in realtà legato a quello surreale: Murakami racconta e non spiega (cosa dovrebbe fare uno scrittore, del resto?). L’apparizione del surreale è solo registrata e trascritta: non viene notata la sua incongruità ma solo la sua esistenza. Esiste come un altro livello della realtà reso visibile da avvenimenti casuali o dal fatto che il protagonista a un certo punto se ne accorge. Va esplorato e descritto, accettato come reale e raccontato. Murakami non cerca il senso, così come non trova incongruente che la fidanzata non gli abbia mai parlato di un fratello o che una scimmia parli.

Murakami, come una medicina, rilascia la tensione della realtà e libera le sue forze per alzarci o farci spostare lateralmente (o sopra, o sotto) e farci vedere ciò che c’è sempre ma che non vediamo.

Accadono le cose reali e quelle surreali e lui le racconta ma non c’è una spiegazione: quella appartiene al reale, quella dà un senso possibile (e limitato, non descrittivo, non risolutivo) al reale mentre nella dimensione surreale non c’è spiegazione. C’è la sua descrizione, è il dominio della parola, è una possibile via di fuga, è l’unica possibile sospensione del reale: credere a ciò che non è reale per trovare un senso alla realtà. Anzi: per vivere in un’altra dimensione possibile, per quanto dura la lettura.

In attesa della porta o della botola che nessuno aveva mai notato, dietro la quale c’è la soluzione che non spiega niente. E va benissimo così.

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