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Inutile

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Inutile

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Vivo vicino a un conservatorio. Specie nella bella stagione o quando c’è caldo e le finestre di questo antico palazzo sono aperte, ciò che vi si produce dentro si diffonde per le strade vicine, deliziando le orecchie. 

A dirla tutta si tratta di un coacervo sonoro abbastanza cacofonico: c’è il cantante d’opera che ritorna insistentemente su quel passaggio difficile, la pianista che suona una partita di Bach, una tromba che prova la sua parte di uno standard jazz. È come sentire dieci voci diverse che, giustamente, non sanno l’una cosa fa l’altra perché ognuna vuole ascoltare se stessa e si esprime in stanze diverse di quella che io chiamo, provocatoriamente, la Fabbrica dell’Inutilità. 

Non che la consideri inutile, affatto. L’effetto che questo delirio sonoro ha su di me è anzi di gaudio irresistibile. Ogni volta che passo sotto quelle finestre sorrido perché quelle melodie provengono da un’altra dimensione e mi attrae andarci, vorrei anzi farne sempre parte. Poi torno alle occupazioni quotidiane, magari fischiettando la cadenza di un concerto per piano di Beethoven che qualcuno stava provando. Era Beethoven? Non so, non importa.

Il nome “Fabbrica dell’Inutilità” gliel’ho dato in relazione a quello che consideriamo utile, e cioè – senza tanto girarci attorno – tutto ciò che è traducibile in termini numismatici. Qualcosa che ha mercato, qualcosa che è utile. In termini economici, appunto. 

La mia interpretazione è estrema, ne convengo: la musica in realtà ha un mercato che non è nemmeno trascurabile. La intendo però in questo caso come esemplificativa dell’arte in generale, che per la mente occidentale ha senso solo se è scambiabile in un mercato, se quindi ha un valore (economico, ovviamente). 

Esisterebbero la pittura, la scultura, la musica, la scrittura se non avessero mercato? In questa logica no, perché non le si potrebbe valutare dal punto di vista economico e finirebbero per non avere alcuna utilità. 

Eppure quando sento quelle stupende melodie mi dico che non importa che abbiano un senso economico perché la loro utilità trascende la loro dimensione economica. Per fortuna.

Se dovessi semplificare – ma non poi tanto – direi che ogni espressione d’arte non ha un senso economico, o ce l’ha solo quando può essere sfruttata economicamente. Eppure andando all’origine del concetto di arte – se mai fosse possibile definirlo – non si potrebbe dire altro che: 

L’arte è inutile.

O, quantomeno, lo è in termini economici. Non produce niente che possa essere mangiato o bevuto, niente su cui si possa viaggiare o correre, niente che possa essere piantato e annaffiato e da cui nasca poi una pianta. L’arte diventa interessante per l’economia quando da forma visibile e concreta di oggetto mentale diventa un bene di scambio, quando cioè assume le sembianze di una forma riconoscibile nel lessico economico.

Resta il fatto che, in una visione puramente produttiva e utilitaristica, l’arte non ha senso di esistere. 

Eppure esiste ed esce dalle finestre di un conservatorio, tutti i giorni o quasi.

Non ci presterei tutta questa attenzione se non fosse che ha la capacità non solo di attirarmi ma soprattutto di modificare la percezione che ho dello spazio e del tempo. 

Mi ripeto “modificare la percezione dello spazio e del tempo” e ricordo una cosa che sentii una volta. La storia del perché gli ascensori hanno gli specchi. Una storia così bella e perfetta che non ha un’origine precisa e verificabile, pur essendo del tutto plausibile. 

La storia è questa: perché gli ascensori hanno spesso specchi all’interno? Il motivo sembra sia frutto di un’intuizione geniale di chi doveva risolvere il problema della loro lentezza, specie di impianti vecchi. La soluzione costosa era quella di adeguare gli impianti o di complicarli dal punto di vista ingegneristico. Qualcosa insomma di molto costoso, a cui si ovviò con una trovata geniale ed economica: montare nelle zone di attesa e all’interno della cabina degli specchi. Per un motivo banale tanto quanto geniale: le persone, guardandosi allo specchio, perdono la percezione del tempo e non si pongono più il problema di quanto veloce o lento vada l’ascensore. 

Se a ciò si aggiunge che, così facendo, si aumentano illusoriamente le dimensioni della cabina, si risolve anche il problema di chi soffre di claustrofobia. 

E se gli specchi non bastano a modificare la percezione del tempo, la musica può ulteriormente alterarla. 

Non direi che l’arte c’entri del tutto con gli specchi e la musica negli ascensori ma di certo questi c’entrano con la percezione della realtà e del tempo, che sono il dominio dell’arte. L’arte, in altri termini, ha la capacità di alterare il tempo e lo spazio, di manipolarli, di plasmarli in nuove forme.

Non c’è altra cosa che lo possa fare, a parte le droghe. Tralasciando però le questioni legali, quel che fa non è cosa da poco e partendo da questa constatazione – cioè dal potere che ha l’arte di modificare la percezione dello spazio e del tempo – si potrebbero percorrere diverse strade. Una conduce ad altre dimensioni, mettendo tra l’altro in dubbio che quella che chiamiamo “realtà” sia reale o sia, più semplicemente, l’unica dimensione possibile. 

Per spiegarlo torno un attimo agli specchi e all’ascensore. Le dimensioni ampliate della cabina sono chiaramente un’illusione: le sue dimensioni reali non sono cambiate ma sono percettivamente modificate in modo da farla apparire più grande. Ma non è finita qui: quella che si vede riflessa non è una realtà che esiste, è solo il riflesso di una realtà, o meglio, è solo la sua proiezione specchiata e invertita che il cervello interpreta come contemporaneamente reale e irreale. In fondo ha profondità (la stessa della cabina) ma è una profondità illusoria, bidimensionale. Eppure, ripeto, reale.

Un’altra strada che parte dal potere dell’arte di modificare la percezione della realtà è quella della distorsione del tempo. L’arte, mi piace ripetere, è uno squarcio nel futuro o, come ho scritto altrove, la realtà supera l’immaginazione ma l’arte anticipa la realtà. 

E arrivo al dunque. 

Il pensiero comune è che abbia senso e gravità solo ciò che ha un’utilità. È una visione che trova, non a caso, perfetta collocazione nella lettura economica della realtà. L’economia, in fondo, tutto misura: i rendimenti, le perdite e i guadagni, il valore delle cose. Non dico che sia una visione sbagliata ma, per molti versi, fornisce un’interpretazione del senso della vita – ammesso che abbia una tale ambizione – monodimensionale: come si diceva, ha senso solo ciò che ha un’utilità. 

L’arte, per concludere con la metafora dell’ascensore, altera la percezione del reale non in modo da far apparire reale ciò che non lo è ma in modo da far intravedere che altre dimensioni sono possibili, sia nello spazio che nel tempo. L’arte, insomma, è multidimensionale. O, in altre parole, se capìta (o percepita), sussurra all’orecchio parole delicate e cariche di senso. Ne dice in verità pochissime. Dice: 

C’è altro oltre a quello che vedi.

Come le note che escono dalle finestre del conservatorio: vengono da un’altra dimensione, da un luogo dove l’utilità è solo uno stato possibile della materia, e nemmeno il più importante. Anzi.

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