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Impromptu n. 3

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Impromptu n. 3

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Quando ho qualche minuto di anticipo allungo la mia passeggiata verso il lavoro passando per il cimitero ebraico. Come tutti i cimiteri, vederlo mi dà molta pace. I cimiteri sono forse i soli luoghi di pace che l’uomo ha saputo costruire. Più di pace delle chiese dove c’è pur sempre una presenza umana, una qualche forma di interferenza. Nei cimiteri invece non c’è alcun rumore di fondo e sei solo di fronte al senso della vita. O alla mancanza di senso.

Quello ebraico mi piace particolarmente perché non appartiene alla mia cultura e non lo capisco. O non lo conosco, dovrei dire. In certi periodi dell’anno le lapidi sono sommerse dalla vegetazione. Si nota di meno che non hanno l’ordine dei nostri cimiteri. Il non senso della vita è ancora più accentuato dalla mancanza di ordine con cui sono disposte quelle pietre che ricordano un morto. Di quei morti non so niente, come non so niente di quelli nostri. Nostri, loro, cosa conta poi.

Non ci sono foto sulle lapidi. Un nome e il ricordo di chi li conosceva, che svanisce quando anche questi smettono di esistere.

Eppure per me il cimitero ebraico è una forma che la memoria può assumere. Ci passo e mi fermo un istante ogni tanto perché mi fa pensare a una cosa che c’è da secoli, un ricordo pietrificato e confuso di una storia che non conosco. Un tempo o una somma di vite di cui non so niente. Ma sapere che c’è è qualcosa di confortante.

Oggi l’ho visitato ascoltando l’Impromptu n. 3 di Schubert. Mi piace il nome “impromptu” perché indica un’urgenza, la necessità di dire qualcosa. Qualcosa che vuole manifestarsi e lo fa quasi impulsivamente. Parlando di urgenza e improvvisazione si potrebbe pensare che si tratti della manifestazione di un pensiero confuso, gioioso o doloroso. Ma è musica e la musica è una espressione di ordine. Questo impromptu in particolare ha ordine nel suo complesso ma è plastico e tormentato nel suo svolgersi. L’equilibrio è ottenuto per contrasti e alternanze, altrimenti sarebbe piatto. Non si può parlare di tristezza dicendo solo cose tristi: bisogna alternare diverse emozioni che, creando tensioni interne, giungono a una risoluzione. Può essere una pace finale o una sospensione o una considerazione qualsiasi sulla vita. Almeno questa è la musica classica romantica, o così la vedo.

Urgenza e impulso non c’entrano molto con la permanenza silenziosa di quel cimitero, eppure vi ho colto una vicinanza. Nella vita siamo attraversati e sconvolti ed esaltati e sconfitti dalle emozioni — per chi le sa cogliere, e non so neanche se sia un privilegio o una iattura — e certi luoghi ci riconducono poi alla memoria e al senso del tempo. Non conta capire che senso ha la memoria: ognuno ne conserva una sua e svanirà con la sua fine. Ma c’è una forma di memoria, appunto, che sopravviverà. Non racconterà una storia precisa ma dirà che lì c’è una storia. Come nel cimitero ebraico: disordinato, incomprensibile, pacifico, rassicurante. Una composizione di vite magari consumate dalle passioni ed esaltate dalle gioie, in pace per sempre dopo che la loro musica si è conclusa giungendo a una risoluzione finale. A una pace, conservata nella memoria.

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