Sono a una festa, di quelle a cui non sono molto abituato. Ci sono galleristi, personaggi eccentrici, milionari, anziane e sofisticate signore scariche di gioielli (perché esserne cariche sarebbe una manifestazione di cattivo gusto – l’abbondanza economica deve essere solo allusa, mai esposta).
Una volta avrei interpretato il mio disagio come timidezza, ora lo interpreto come il timore di essere scoperto. Cosa ci faccio io qui? Si accorgeranno che io non c’entro niente? Guardo come sono vestito: ho i jeans neri con cui credo di stare bene o almeno mi sento bene, un paio di Nike da collezione (l’unico vezzo che può cogliere solo chi è appassionato di scarpe), una t-shirt e una vecchia giacca che sarà costata 200 euro ma che mi sta bene. Di certo si accorgeranno che vale poco, il taglio sulle spalle non è perfetto e le maniche sono troppo lunghe, di almeno un centimetro. I centimetri sui polsini sono chilometri, come diceva il mio professore di tecnica alle medie: “I centimetri sulla carta sono chilometri sulla strada”. Sorrido ricordandolo. Penseranno “Cosa ha da ridere quello?” ma più probabilmente non mi considereranno.
Pensare di essere osservati è una forma di egocentrismo. Agli altri di te non gliene fotte niente.
Per fortuna, almeno in questo caso.
Le tecniche per superare l’imbarazzo in genere non funzionano, almeno con me. “Pensali tutti nudi”, “Pensali mentre sono seduti sul water”. Niente, non funzionano. Mentre mi aggrappo al mio drink come fosse un’ancora e una giustificazione della mia esistenza in quel contesto, cerco di capire cosa pensano guardandomi. La lettura più ricorrente è che non pensino niente o che mi derubrichino come “non interessante”, “non influente”, il che giustificherebbe il non attaccare bottone, il non provarci nemmeno. Ma poi, perché dovrebbero? Forse dovrei io. Tutti questi ragionamenti sono solo proiezioni dell’insicurezza, cioè forme che prende il mio essere un impostore. Se ne accorgeranno, prima o poi.
Poi penso che ognuno ha il suo impostore personale e quelli che appaiono più sicuri non è che non ce l’abbiano, è che sono riusciti a silenziarlo meglio. L’hanno nascosto dietro una maschera di controllo e dominio. Ognuno sa di essere un impostore e allora mi dico che bisognerebbe lasciare che queste altre identità – quelle celate per pudicizia o vergogna – si svelassero, almeno fra di loro. Hanno vergogna – o hanno vergogna i rispettivi padroni e le rispettive padrone – dell’atto di essere scoperti, non di esistere. Non conoscono altra realtà che non essere capaci di far qualcosa, o di poter essere scambiati come capaci di fare cose che non sanno fare.
Bisognerebbe lasciare che si parlassero. In fondo tutti sanno degli altri omologhi di essere ciò che sono: inadeguati incapaci.
Chissà cosa si direbbero. “Cosa nascondi?” “Quale incapacità rappresenti?”
Questa festa è metaforica, è una rappresentazione quasi teatrale della mia inadeguatezza, ed è anche la forma che ha preso mille volte la mia vita e che, credo, prenderà per sempre, finché campo: saper fare qualcosa e poi trovarsi a farne un’altra, che almeno all’inizio non so fare, ovviamente.
In questi frangenti mi ripeto:
Non è che non lo so fare, non lo so ancora fare. È diverso.
Ogni fenomeno, ogni aspetto della realtà, ogni accadimento della vita può essere visto da almeno due punti di vista. La percezione dell’inadeguatezza può prendere la forma di un’energia annichilente oppure può diventare lo stimolo a migliorare. Non so ancora fare qualcosa, quindi lo imparerò.
C’è poi un altro aspetto insidioso del percepirsi impostore: è tranquillizzante, è confortante. Non spinge al miglioramento e all’evoluzione ma consola nell’indugiare nella condizione di inadeguatezza.
Ho studiato per essere architetto ma poi ho finito per scrivere e parlare e insegnare (altre sembianze del comunicare). Non sapevo di saper scrivere – ammesso che lo sappia fare oggi – né di saper disegnare dipingere fotografare o quant’altro sappia fare, bene o male.
Il fatto è che siamo anche vittime del mito del talento, cioè del destino. Il destino è in effetti un’altra tranquillizzante forma che lasciamo imprimere sull’argilla della nostra esistenza, come se si nascesse quadrati e si fosse destinati a morire altrettanto. Ci si può trasformare, solo che costa fatica.
Sentirsi impostori e inadeguati è un importante livello della consapevolezza perché se non ci si sentisse tali non saremmo nemmeno spinti a evolverci. Ci sentiremo compresi e realizzati nel nostro essere in controllo. Non presteremmo ascolto all’urgenza della curiosità che spinge a non sentirsi mai soddisfatti e a rincorrere sempre un’altra spiegazione, a intraprendere sempre il percorso sul sentiero nascosto che a un certo punto si apre sulla strada maestra.
Il sentirsi impostori – mi dicevo poi – non è una condizione ma la spia di qualcosa di diverso. Esserlo significa infatti fingere di essere chi non si è, e aggiungo “chi non si è ancora”.
Manca sempre la dimensione temporale, ecco, mi dicevo compiaciuto. Ci si pensa sempre come materia immutabile, come quadrati che nascono tali e non sono destinati a essere altro che quadrati, cose così. Non ci si pensa mai in una qualche prospettiva che dia proporzione alle cose. Oggi, adesso e domani, nel futuro. Cose così.
Questa considerazione non mi salverà dall’imbarazzo sociale di farmi cogliere per quel che sono dagli illustri invitati a questa festa: loro sanno già di essere ciò che sono e io so di non essere ancora chi e ciò che potrei essere e sarò.
Il divenire costante è faticoso, è davvero una dannazione: ogni volta che diventi qualcosa hai solo raggiunto uno stato che prelude al successivo. Che ovviamente non conosci. Non sai dove si trova né come ti trasformerà. Sai solo che ti renderà diverso, che cambierai pelle nel raggiungerlo.
Temo che non smetterò mai di sentirmi un impostore. Lo considero il residuo della timidezza che con il tempo ho perso. A cosa serve la timidezza se non a proteggerci? A un certo punto ho smesso di volermi o dovermi proteggere, tanto avrei scoperto modi per ferirmi da solo o mi sarei trovato ferito da altri senza nemmeno immaginare come, senza aspettarmelo, senza capirne alcunché e perché.
Allora quel che sopravvive della timidezza è il senso di inadeguatezza, è la sindrome dell’impostore. Quanto l’hanno amata in questi anni praticamente tutti: dava una risposta medica e psicologica plausibile al sentirsi costantemente fuori luogo.
Fuori tempo e fuori luogo: sentirsi impostori è una sindrome da dislocazione. Le ho trovato un nome migliore, che so solo io (e ora tu che leggi, se la troverai definizione adeguata).
Dislocazione errata nel flusso del tempo e nel luogo.
Allora la si può intendere come una condizione invalidante (“non sono mai né sarò mai al mio posto, pur non sapendo nemmeno quale sia il mio posto”) o come uno stimolo a cambiare condizione, stato, assetto:
Essere qui, ora per capire che non si appartiene al qui e all’ora e che si deve tendere altrove.
Non volevo complicare così tanto le cose, volevo solo parlare del sentirmi impostore.
E volevo anche continuare a immaginare queste sindromi convenute a questa festa, ben celate dietro i sorrisi compiaciuti e compiacenti degli invitati: so che tutti ne nascondete una, quindi lasciamo che si parlino. Sono la parte più pura e per questo da difendere con più impegno: non finge di essere niente e nessuno, il suo unico destino è essere qualcosa in costante evoluzione. Va protetto, va conservato, ecco perché abbiamo inventato la timidezza e poi, quando da adulti era disdicevole dirsi timidi, l’abbiamo chiamata “sindrome”.
Volevamo solo proteggerla, volevamo solo difenderla. È sempre lei: è l’anima. Non può prendere freddo né essere esposta all’esterno del corpo, potrebbe morirne.
Allora ho immaginato queste anime che si parlavano, a questa festa. È diversa, ora: le anime non hanno un sistema sociale che ne organizza la collocazione e il senso; non hanno ambiti e funzioni e scopi. Sono anime e basta. Si mettono a parlare fra di loro, indipendentemente dai corpi in cui albergano.
Si raccontano come è essere sé stesse e ridono dell’abito da impostore che si sono messe addosso. Non è per loro, è per gli umani. Amano confondersi così, scambiandosi per altro, credendo di essere ciò che non sono e di non essere ciò che sono.
“Cosa prendi da bere?”
”Acqua, grazie. Va benissimo l’acqua”.