È altrettanto interessante osservare come le critiche al libro si siano presto spostate dal contenuto all’autore, come a dire che può esserci argomento di discussione nelle sue tesi ma parliamo di BEE e di come ha vissuto negli ultimi dieci anni: senza scrivere un romanzo che sia uno — anzi abbandonando sostanzialmente la scrittura, almeno quel tipo di scrittura — twittando ubriaco di notte, difendendo Trump e attaccando i difensori d’ufficio della libertà, ossia i democratici americani.
Basterebbe invece leggerlo per capire che la sua figura non è più quella dello scrittore ma piuttosto dell’intellettuale e pure della specie più rara: quello poco inquadrabile, né liberal né repubblicano, né tantomeno polemico per partito preso se non quello di se stesso, della sua visione del mondo.
BEE ha la capacità di partire dall’argomento più vacuo ed effimero come i social e il loro chiacchiericcio e non lasciarsene invischiare, librandosi invece molto più in alto per capire i meccanismi che governano i rapporti fra le persone e quindi fra le parti della società fino ad arrivare a una riflessione molto profonda e articolata sulla forma che ha assunto il vivere pubblico. L’immagine delle persone, l’ossessione per la reputazione, la preponderanza che nelle vite individuali ha assunto la dimensione pubblica, fino a portarle a impersonare sempre qualcuno di diverso da sé stessi, più adatto e accettabile dal consesso umano. Chi ha il coraggio di essere fedele alla propria identità, senza cedere alla normalizzazione pur di essere incluso nella società è la persona libera. Ma chi è libero oggi è anche allontanato dal gruppo perché non condivide o rispetta le regole.
BEE si dice poco interessato alla politica. Preferisce parlare di cinema o letteratura eppure alla politica si riconduce inevitabilmente ogni discorso sull’individuo nella società. C’è una sua frase — gliel’ho sentita dire durante un’intervista, forse non c’è nel libro o c’è in forma più estesa — che recita pressapoco così:
L’estetica ha ceduto il passo all’ideologia
In un’era post-crollo del muro di Berlino, in un tempo in cui la storia — si diceva — era finita con la vittoria del consumismo e del capitalismo sul comunismo, in un’era infine in cui le ideologie avevano fallito ed erano state sconfitte, dopo tutto ciò si è tornati a parlare di ideologie. Anzi: le ideologie sono tornate ancora più potenti e prepotenti di prima. Non sono più il capitalismo e il comunismo ma sono state il tecnicismo e ora sono il femminismo, il sovranismo, l’egualitarismo e altri vari -ismi.
Se però le due ideologie secolari del ‘900 avevano campi d’azione definiti nella politica e nella società (ma sempre a livello politico), le ideologie moderne sono molto più capillari e pervasive: invadono il discorso sociale, condizionano i rapporti fra le persone, modificano la visione del mondo annullando l’individuo a favore di una divinità impersonale che promette l’accesso alla società, il successo, la “likeabilità” o anche, più spesso e più semplicemente, la sopravvivenza nell’accettazione di se stessi presso gli altri.
Per sopravvivere, l’individuo deve essere certificato dagli altri, a colpi di like e cuori e approvazioni. Che hanno come contraltare la disapprovazione, la derisione e l’odio. Cosa c’è alla base di un meccanismo così perverso che, nell’ispirazione, dovrebbe portare all’inclusione ma che ottiene l’effetto opposto? La società contemporanea non include perché è giusto di per sé ma perché è buono, o supposto tale.