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Identità

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Ricordo a distanza di qualche decennio un articolo del sociologo Ilvo Diamanti su Repubblica. Non so perché ma la memoria ha sempre uno spazio per informazioni apparentemente non vitali. Forse l’avevo trovato interessante, forse una parte di me mi diceva di conservarne memoria. Ah già, cosa diceva Diamanti. 

Diamanti parlava di come sono cambiate le nostre città negli ultimi decenni. Non solo le città ma soprattutto i centri più piccoli. Mi pare parlasse di Rosà ma il discorso si applicava anche a Bassano o ad altri centri industriali cresciuti assieme alla loro popolazione in maniera vertiginosa. Rosà, in particolare, ha acquisito un peso notevole a livello mondiale nello sviluppo e nella produzione di componenti per biciclette di altissima qualità. Ha insomma un’industria pregiata e un PIL procapite che non ho difficoltà a immaginare altrettanto notevole. 

Il punto di Diamanti era che lo sviluppo industriale aveva trascinato con sé anche l’espansione della città, non solo edilizia ma anche demografica. Trattandosi poi in origine di un centro urbano molto piccolo, il cambiamento era stato ancora più radicale. Tutto stava cambiando attorno a gente che prima a malapena si accorgeva del passare del tempo: in fondo viveva in quei luoghi immutati da una vita.

Cosa stava succedendo? C’erano nuove strade, nuove facce, nuove abitudini. I riferimenti erano stati sconvolti e le persone che risiedevano da sempre in quelle case nel giro di pochi anni avevano perso coordinate che sembravano immutabili. 

Da un certo punto in poi non sapevano più chi erano.

Perdere le coordinate non è cosa da poco. Gli esseri umani le usano, banalmente, per capire chi sono, per collocarsi nello spazio e nella società. O nello spazio della società, che è più mentale e morale, nel senso di “comportamentale”. 

Nel giro di qualche anno i riferimenti erano cambiati: quelli consolidati non lo erano più e i nuovi erano irriconoscibili. La gente non riconosceva più i propri luoghi (che mutavano e si espandevano) né le persone che li abitavano, che spesso erano nuove, non nate lì, sconosciute.

Quando gli sconosciuti aumentano di numero attorno a te, finisci per essere uno sconosciuto anche per te stesso. Non ti riconosci più riflettendoti negli altri, perché gli altri non sai chi siano.

Come spesso accade, artisti e scienziati c’erano arrivati prima, grossomodo alla fine del 1800. La crisi delle scienze, la crisi dell’uomo moderno, la filosofia che si interroga sul fondamento delle sue stesse basi. Per molti versi – e a parte gli eventi bellici catastrofici – la storia del 900 è il racconto di come l’umanità (quantomeno quella occidentale) ha messo in crisi i suoi stessi fondamenti. Forse li ha messi alla prova, forse voleva capire quanto solidi fossero ma lo scopo era quello e ruotava attorno alla domanda “Chi siamo davvero?”. 

Un dibattito del genere – è facile intuirlo – interessava più a un numero ristretto di intellettuali che al resto della popolazione. Salvo poi arrivare a coinvolgerla molti decenni dopo, prima con le guerre e poi con l’accelerazione del progresso industriale. Ogni evento sociale non agisce mai in un ambito separato dal resto: l’industrializzazione aumenta il benessere economico, influisce negativamente sull’ambiente, cambia le traiettorie sociologiche e riverbera nell’urbanistica e quindi nella forma della città. Tutto è connesso e all’ambiente in cui vive è connessa inevitabilmente l’umanità, che lo modifica essendone modificata a sua volta. 

Tutto è però avvenuto, si diceva, con un’accelerazione prodigiosa che non accenna a rallentare e che, anzi, sembra solo e sempre aumentare.

Ma la più grande rivoluzione dell’umanità è quella dell’individuo, o meglio: la percezione del singolo come di un’entità all’interno di ambiti che lo definiscono, lo modellano, lo schiacciano o lo elevano, pur mantenendo evidente il rapporto fra singolo e collettività. 

Iniziò probabilmente molto prima che dell’inizio del ‘900: iniziò in pieno Umanesimo, pur non essendo un’espressione di crisi ma di potenzialità. Per la prima volta gli esseri umani non erano solo massa e comunità, ma individui (in primo luogo) e comunità dopo.

La questione è insomma quella dell’identità, che non può che definirsi se non in un contesto di moltitudini di altre identità. Non è data identità in senso assoluto, ogni identità deve avere un riferimento, deve misurarsi con altre identità per conoscersi.

La scienza e le arti si erano chieste quali fossero i fondamenti dell’identità e se si potesse distruggerli e ricostruirli diversamente. L’umanità si è trovata a chiedersi chi era prima ancora che tentare di rispondere alla necessità di dare un fondamento alla propria identità.

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Se si cerca nel dizionario cosa significa “identità” si trova una definizione molto semplice: “Essere questo e non quello”. Questa, per lo meno, è la definizione classica, consolidata. È interessante notare che l’identità è definita dalla simultaneità di almeno due condizioni: è sia “essere questo” che “non essere quello”. Per trovare insomma il proprio baricentro esistenziale bisogna sapere chi si è e, allo stesso tempo, sapere rispetto a chi o cosa si è differenti. 

Come se ciò non fosse già abbastanza complicato, negli ultimi decenni a questa formula si è aggiunta la variante temporale, che l’ha ridefinita in termini dinamici. L’identità non è immutabile, insomma, ma varia con il tempo, in funzione del mutamento delle condizioni ambientali. 

Ecco perché l’identità degli abitanti di Rosà venne messa in discussione: sapevano chi erano in un dato tempo ma non capivano più se stessi in un altro tempo. Il variare delle condizioni ambientali li ridefiniva, in continuazione.

La condizione dell’identità oggi non è né positiva né negativa. Non esistono giusto o sbagliato né bene o male in certe astrazioni filosofiche. La condizione dell’identità è dinamica, o fluida che dir si voglia e senza darle alcuna connotazione sessuale e di genere.

Se la crisi era cominciata mettendo in discussione i fondamenti morali e filosofici dell’individuo (e poi delle arti e delle scienze) oggi prosegue avendo nel frattempo coinvolto miliardi di persone che nascono avendo una percezione di se stessi e continuano a vivere dovendo costantemente ricollocarsi nel flusso del tempo per capire chi sono e dove sono. 

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Concludo suggerendo un’altra interessante riflessione sull’identità, letta attraverso la capacità dei luoghi in cui si vive (in questo caso di Milano) di plasmare l’identità. È di Silvio Castelletti nella sua sempre ottima The Semi-Serious View e si intitola “Identity and the City”. La domanda che si pone è quanto e come le città in cui ha vissuto abbiano deciso della sua identità, concludendo – o mi piace forse interpretare così le sue osservazioni – che i luoghi rivelano l’identità più che definirla. 

C’è anche in questo caso la dimensione temporale perché in diversi momenti esistenziali, diverse città fanno emergere lati dell’identità, svelandola poco alla volta nella sua interezza. Eppure c’è anche la consapevolezza che all’interno dell’identità c’è un nucleo immutabile, un baricentro insensibile a qualsiasi scossa tellurica ed esistenziale, che definisce il sé, che è l’origine del sistema cartesiano individuale attraverso cui ci si colloca nel tempo e nello spazio.

Il che non gli impedisce – non ci impedisce – di essere barche in un flusso temporale che cambia continuamente il contesto e le persone, gli individui e le collettività. L’importante è sapere con buona approssimazione che tipo di barca si è.

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