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Futuro

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La scatola dei biscotti di Oliver è finita. La scuoto e faccio uscire l’ultimo, la lascio sul tavolo. Esco con lui a passeggiare. Lasciarla sul tavolo mi serve a ricordarmi di buttarla via quando torno e infatti dopo mezz’ora la ritrovo e la getto nella raccolta della carta. 

Quella era una scatola finita di biscotti ma era anche una lettera – un appunto più che altro – che avevo scritto al me stesso del futuro, per ricordarmi una cosa. Tutti gli appunti che prendo sono lettere al me stesso del futuro: ricordano cose che dovrei fare, registrano cose che ho fatto, letto, sentito, visto – per ricordarle. Nel futuro. 

Il futuro è una destinazione, o più che altro è una direzione. Una destinazione presuppone che, a un certo punto, si arrivi a una sosta ma una direzione è un punto situato più oltre, non collegato generalmente a me – a noi – da una linea retta. Si va, verso una direzione. Come ci si arrivi non è dato saperlo e il viaggio spesso è tortuoso, comporta inversioni, soste, cambi di direzione pure. Tanto che è più frequente che non si arrivi alla destinazione che si voleva raggiungere ma da tutt’altra parte. In territorio sconosciuto. 

Ho sbagliato direzione? 

No, non credo. Forse è più giusto dire che, se ci si trova altrove, la direzione è stata sbagliata in partenza, non all’arrivo. Insomma: mi trovo dove dovevo trovarmi. 

Non parlo di luogo, non c’entra la geografia: nella mia vita oggi e in ogni altro momento vissuto, sono dove dovevo trovarmi perché ho scelto – consapevolmente o meno – di arrivare esattamente qui, a scrivere queste righe, dopo aver gettato la scatola dei biscotti di Oliver nel cestino della carta.

L’idea del futuro è anche una delle più discusse e mutevoli. A ben pensarci cambia di giorno in giorno ed è una delle più soggette all’umore. Eppure si lega ad altre questioni per niente secondarie. Basta pensare a quanto il mercato azionario sia basato su deduzioni relative al passato (l’andamento dei titoli) e a previsioni sul futuro (basate sullo stato di salute dell’azione).

Il fattore più determinante nel definire l’idea di futuro è anche molto personale: è la narrazione che se ne fa, è la storia che ci raccontiamo riguardo al futuro. Dove saremo, dove vorremmo essere, dove stiamo andando, da un punto (ora) a un altro (nel futuro). La storia che ci raccontiamo dà la direzione perché condiziona le scelte. 

La scatola dei biscotti è una metafora o un artificio narrativo. La si immagina facilmente, è qualcosa di concreto. Ma è anche una metafora che funziona ancora meglio quando la chiamo “lettera al me del futuro” (che è poi il me di 30 minuti dopo ma poco conta e sempre futuro è). Una lettera è scritta, una lettera racconta una storia. 

Non deve per forza essere composta da parole scritte, possono anche essere parole che stanno solo nella testa ma è una storia, questo è il punto importante. 

Il fatto di poter scrivere una lettera ci situa nel presente (quando la scriviamo) e contemporaneamente nel futuro (quello immaginato). L’uomo è l’unico animale che riesce a immaginare. Altri animali hanno memoria e quindi conoscono la dimensione del passato – sanno ciò che è stato, anche se non razionalizzano l’idea, non hanno neanche idee, a dirla tutta. Ma l’uomo riesce a ricordare, vivere nel presente e immaginare il futuro. E questo è un altro punto importante.

Riesce anche a farlo discretamente e contemporaneamente, cioè riesce a vivere nel presente pensando al futuro, anche perché il presente è la realtà dalla quale muove passi verso il futuro. Bisognerebbe vivere il presente – certo, lo si dice in ogni dove – ma la verità è che il pensiero del futuro è sempre presente, appunto.

Poi ho letto questo in Ghosts of My Life di Mark Fisher.

The very distinction between past and present is breaking down. In 1981, the 1960s seemed much further away than they do today. Since then, cultural time has folded back on itself, and the impression of linear development has given way to a strange simultaneity.

Ormai il continuum temporale si è interrotto e non c’è più distinzione fra passato e presente. Non ci sono cose che appartengono solo al passato e che non si ripeteranno mai. Ormai le cose succedono contemporaneamente e quindi la distinzione fra ciò che è stato e ciò che è (e, per estensione, ciò che sarà) sfuma sino a scomparire. 

È facile constatarlo nella moda, nella grafica, nel design, nell’arte, nella musica: lo stile del tempo sono tutti gli stili, non esiste uno stile (una lingua, cioè) realmente dominante, perché esistono tutte le lingue, in simultanea. 

Un simile rivolgimento culturale ha almeno due effetti: uno evidente e sperimentato ogni giorno e uno potenziale. 

Quello evidente è che, come dicevo, non esiste più una sola lingua – quantomeno quella principale – ma ne esistono infinite, relative a ciò che è e ciò che è stato. Il tempo si è piegato su se stesso e non ha più distinzione fra passato e futuro: il tempo è unico e non accoglie più un prima e un dopo, se non quelli convenzionali, del calendario. L’impressione è invece, cosciente o meno, che tutto accada in simultanea. 

L’effetto di una percezione del genere è che non è più possibile collocarsi nel tempo, non si hanno insomma più riferimenti. Cosa misura davvero il progresso, cosa è il progresso se non è più possibile misurarlo su una linea che postuli un prima e un dopo? 

Questa domanda allude anche al potenziale di questa odierna distorsione temporale: se viviamo in una fase storica in cui il tempo non ha più atti e non si svolge più logicamente e in una sequenza, possiamo essere in ogni tempo, contemporaneamente.

Come detto, collocarsi in questo contesto è difficile se non impossibile ma permette anche di annullare la necessità di chiedersi cos’è il futuro o che forma avrà il futuro.

Il futuro non è nemmeno più coniugato, poiché è passato e presente, all’infinito. E soprattutto non è diverso da loro.

Potrebbe trattarsi di un potenziale ancora inesplorato. Quasi sicuramente lo è. Il fatto di non potersi collocare nel continuum temporale di certo disorienta poiché siamo nati sapendolo fare. Ci veniva anzi piuttosto facile perché l’immagine del passato era evidentemente diversa da quella del presente, che a sua volta sarebbe stata diversa da quella del futuro.

Di certo è una dimensione che dobbiamo imparare ad abitare. Non ha uno sviluppo lineare, non ha nemmeno una dimensione precisa e quindi non ha un’evoluzione. O meglio: l’evoluzione si è già attuata perché questo tempo è tutto il tempo. Ma è talmente esteso da non avere confini. 

Forse è un’illusione di questa era contemporanea ma se tutto il tempo è ora (se non ci sono più passato, presente e futuro) significa che il tempo ha riempito ogni spazio, ha saturato ogni possibilità, si è compiuto ed esaurito. 

Il tempo è tutto e niente, contemporaneamente.

Devo comprare altri biscotti per Oliver. 

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