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Il pianista Jeremy Denk dà un consiglio: quando si ascolta un brano di musica bisognerebbe individuare il basso e concentrarsi solo su quello. Il basso è proprio il basso (lo strumento) in una canzone pop o è il violoncello, per esempio, in un quartetto classico.
Bisogna seguirlo, anche se è uno strumento che gioca a nascondersi, per quanto lo faccia involontariamente: in realtà se lo si togliesse, parte dell’edificio musicale crollerebbe.

Ma il punto è un altro. Denk dice di prestare attenzione a quella linea musicale per sperimentare una magia della musica: se ci si concentra sul solo basso, gli altri strumenti non scompaiono ma si continuano a sentire. Anzi: si sentono molto meglio. Tutto sembra magicamente più eloquente e comprensibile.

Uno dei podcast che preferisco da sempre è Freakonomics. Lo ascolto da quando ascolto i podcast, cioè da boh, 7-8 anni. Il primo fu Serial e poi scoprii Freakonomics, forse perché al tempo non ce n’erano così tanti ed erano tutti in inglese, cioè provenivano tutti o quasi dagli Stati Uniti.

Ho sempre amato quel podcast – che poi deriva sia nel nome che nella conduzione di Stephen J. Dubner dall’omonimo libro – per la sua capacità di fare collegamenti mentali e sostanziali fra fenomeni e cause sociali ed economiche che non erano chiari ai più. Le tesi di fondo su cui si basa Freakonomics sono che:

  1. I macrofenomeni sono generati da molteplici cause i cui intrecci non sono spesso visibili né ovvi
  2. La prima e più evidente spiegazione dei macrofenomeni è spesso sbagliata o è solo parzialmente corretta, quindi è meglio non fermarsi a quella ma indugiare nell’indagine
  3. Gli esseri umani non sono bravissimi a fare collegamenti fra fenomeni che non sembrano far parte della stessa famiglia.

Credo che la spiegazione, specialmente di questo ultimo punto, stia in un carattere umano che ci portiamo appresso dai tempi più remoti: decidere in fretta spesso può (o meglio: poteva) salvarti la vita. Si badi bene: non decidere la cosa giusta in fretta, ma decidere e basta.

L’attenzione è spostata sul mezzo (il decidere) più che sul risultato (la bontà o meno della decisione).

Se però decine di migliaia di anni fa aveva un senso esistenziale decidere in fretta, oggi ce l’ha molto meno. Oggi, per quanto i tempi corrano veloci perché questa pare essere l’unica andatura che concepiamo, mettere in atto la prima decisione presa non decide della vita o della morte di nessuno. Potrebbe decidere eventualmente una morte metaforica (perdere interamente un capitale investito, nel caso il poco tempo sia dedicato a decidere come gestire un investimento) ma non di certo reale.

Sembra inconcepibile non sapere rispondere a una domanda anche semplice e non volersi prendere il tempo per farlo per timore di sembrare svogliati, pigri o – peggio – non abbastanza intelligenti. Nessuno è mai morto per una risposta sbagliata o poco circoscritta e meditata. Nessun leone ci mangerà o ci risparmierà se prendiamo la decisione sbagliata o giusta, anche perché il leone più vicino sta a migliaia di chilometri o a qualche centinaio di metri ma nella gabbia di uno zoo.

Uno dei fenomeni più interessanti spiegati in quel libro è quello che lega la diminuzione dei reati negli Stati Uniti negli anni ‘90 con la liberalizzazione dell’aborto. I due fenomeni sembrano non c’entrare l’uno con l’altro, salvo per due dettagli: entrambi coinvolgono esseri umani ed entrambi si collocano nel flusso temporale.

Il fattore umano è quello delle donne che, dopo la sentenza della Corte Suprema nel caso Roe vs Wade del 1973, poterono interrompere legalmente gravidanze non volute. Gli effetti di questo provvedimento furono immediati (meno nascite indesiderate, e un aumento proporzionale di quelle desiderate) e dilazionati nel tempo: dopo un decennio e mezzo – quando cioè quei figli indesiderati sarebbero stati in grado di compiere reati – non vi erano figli indesiderati a compierli o almeno ve n’erano molti meno di quanti ne sarebbero nati se non fosse esistita quella sentenza.

Si tratta di un esempio che riesce a collegare due fenomeni che non sembrano intuitivamente far parte dello stesso dominio, anche all’interno di una scala temporale relativamente dilatata, pari a quasi due decenni.

Ma, come si diceva, gli esseri umani non sono bravissimi a fare collegamenti, o almeno non io, o non sempre. È più semplice pensare alla prima risposta che viene in mente e salvarsi la vita dal leone immaginario.

Il fatto è che per collegare fenomeni e fatti distinti, o per collegare fatti che nel loro svolgersi diventano fenomeni, ci vuole una discreta capacità mentale. Quello che lo sguardo della mente riesce normalmente a valutare in una precisa frazione di tempo è poca cosa: è concentrato su frammenti di tempo e di azione e quindi vede solo i resti delle cause che li hanno provocati, senza riuscire a rintracciarne l’origine.

Fare collegamenti richiede altitudine e tempo: la prima per vedere le cose dall’alto e più cose contemporaneamente e il secondo per cogliere il loro dipanarsi nel tempo. Eppure concentriamo lo sguardo solo su una frazione precisa, perché è più semplice farlo, perché è a disposizione e perché è quella che ci salva dal leone.

Cosa c’entra la linea di basso cui accennavo prima? È una metafora e serve a indicare che bisognerebbe cercare un’ancora, un fondamento che collega i fatti, e prendersi il tempo per individuarlo.

Non a caso si chiama “linea di basso”: corre sotterranea, unendo tutte le parti di una composizione. C’è insomma un insieme di fili che collega ogni cosa, ogni avvenimento, ogni essere umano. Non esiste infatti alcuna persona che non abbia un collegamento con altre, a partire dai genitori fino agli antenati e alla loro discendenza.

Non a caso quella umana è l’unica specie con spiccate attitudini sociali. Non è l’unica che ne abbia: i bonobo hanno sviluppato una forma primigenia di società che, a esempio, ha espresso una sessualità e un’emotività persino più avanzate di quelle umane.

Cos’è in effetti una società se non un insieme di individui e tutti i legami che li collegano (i collegamenti)?

Nell’immaginarla spesso però si considerano solo gli individui, trascurando il fatto che sono i legami fra di loro il motivo per cui fanno parte di un insieme prevalentemente omogeneo.

kith and kin di Archie Moore – Venezia, Biennale 2024

L’artista australiano Archie Moore ha rappresentato alla Biennale Arte 2024 di Venezia l’albero genealogico della sua famiglia, risalendo fino a 65.000 anni fa. Tutto il padiglione australiano è ricoperto da questo murales composto da nomi e linee di collegamento. L’opera, che gli è valso il Leone D’oro, pone l’accento anche su un altro dettaglio: risalendo così a fondo nel fiume del tempo e giungendo alle origini comuni a tutto il genere umano, dimostra anche che la storia umana è un albero con radici comuni, non un insieme incoerente di rami che pensano di essere alberi.

Raramente o forse mai nella storia dell’umanità la tecnologia si è evoluta rapidamente come in questi ultimi decenni. Quella visione complessiva, orizzontale e comprensiva di tutto – davvero una Teoria del Tutto, almeno concettualmente – è finalmente decifrabile.

Dell’AI se ne parla perché non è davvero intelligente o perché ci dominerà o perché toglierà lavoro. Più ne sento discutere e più mi pare che sfugga il potenziale casuale che offre, cioè quello di trovare collegamenti fra dettagli, notizie, informazioni e fatti che il cervello umano non riuscirebbe altrimenti a elaborare. Non perché gli manchi il potere ma perché non può avere a disposizione contemporaneamente una capacità di calcolo impressionante e il più preciso e grande database del mondo.

Pur trattandosi di una forma di intelligenza che, in ultima analisi, non capisce quello che pensa (non sa nemmeno cosa pensa, sa solo che statisticamente e probabilisticamente le risposte che fornisce sono conformi), sembra essere in grado di creare collegamenti fra cose che ricorda, o che sa (L’AI non sa di sapere ma sa richiamare la conoscenza).

Forse è proprio quella linea di basso di cui parlavo all’inizio: una struttura che sta sullo sfondo e unisce tutto. È in penombra ma, quando è visibile, fa comprendere i legami fra le parti e le fa risuonare più cristalline.

Del resto non è tanto importante avere conoscenze quando il saperle collegare.

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