12 anni fa uscii al mattino presto a correre, a Knoxville. Sembra l’inizio di un libro ma accadde veramente. Non conta perché fossi lì ma conta che ci fossi o piuttosto conta quello che notai: poche cose, in definitiva.
Era la prima volta che vedevo una città americana che non fosse New York o Chicago (al tempo anzi non ero nemmeno stato a Chicago) e ricordo che mi sembrava una vera città americana. Intendo di quelle viste in certe serie TV, non quelle per antonomasia come Los Angeles o San Francisco o, appunto, Chicago o New York. Il resto dell’America.
Non aveva però la familiarità di New York ma aveva un altro tipo di aria: quella di qualcosa che conosci perché l’hai vista in mille film e l’hai immaginata in tutta la letteratura americana che hai letto. La provincia americana, l’anonimato di certe città americane, quella sensazione di non saperle mai bene collocare sull’atlante.
Un’altra cosa mi parve straniante di quella città che vidi poi, qualche ora più tardi – quando non era più mattino presto – non almeno tanto presto come quando ero andato a correre: vidi una città in cui non c’era quasi nessuno.
Controllai quanti abitanti avesse perché mi pareva irreale che sembrasse avere la vitalità di una cittadina di qualche migliaio di persone quando in realtà ne contava – controllai – 190.000.
Dov’era tutta la gente?

Camminai un po’ per il centro. Incontrai qualche vecchio a passeggio. Vidi mille fotografie viste mille volte in mille film: il pickup parcheggiato dietro edifici che presentavano alla strada grandi muri ciechi (erano dei retri, del resto), vidi negozi sfitti che parevano vecchi saloon, vidi supermercati contenuti in perfetti parallelepipedi bianchi, vidi alberi che non si erano ancora accorti che fra poco sarebbe stata primavera, vidi una città che mi parve un set cinematografico durante una pausa di lavorazione, o forse abbandonato. C’era un bellissimo sole, questo lo ricordo bene. Un sole quasi ironico, nel suo essere beffardamente stupendo.
Ma non vorrei sembrare troppo critico nei confronti di una città che, in fondo, vidi solo un paio di giorni.
Quello che posso dire è che da allora mi è rimasta in mente. Ancora oggi mi chiedo ogni tanto:
Ma dove erano gli abitanti di Knoxville?
Le città sono delle macchine abitate da umani. Sono gli organismi più complessi mai creati dall’umanità. A volte, mentre cammino, guardo i palazzi e le case. Se è sera sono attratto dalle finestre illuminate e allora immagino le vite degli altri – per citare quel bellissimo film con un bellissimo titolo. Poi mi sforzo e tento di immaginare una radiografia di quegli edifici e allora vedo i mobili e le persone e i tubi e i cavi che corrono lungo i muri e sotto i pavimenti e poi scendono e si innestano nella base, sotto il marciapiede. Altri scendono ancora più in fondo, metri sotto il marciapiede, e portano fluidi o gas o dati o elettricità che corrono altrove e deviano e hanno una meta o una provenienza. Poi moltiplico questa immagine per le centinaia o le migliaia di edifici di una città e poi non riesco a immaginare oltre, perché quello è un organismo ed è governato da migliaia di processi e algoritmi e da codice e consuetudini, leggi e pratiche.
La città è la cosa più complicata mai creata dall’umanità. La città cattura il tempo: in una città c’è il tempo presente (quello che succede) ma c’è anche il passato e pure il futuro, mentre germoglia. La città è tempo.
Forse Knoxville mi era sembrata strana perché non assomigliava a nessuna città che mi fosse nota. Non solo per il fatto che non vedessi in giro nessuno ma anche perché non aveva ancora accumulato il tempo passato a cui ero abituato da sempre: quello delle città italiane o europee, quello delle città che hanno secoli o millenni di storia.
A volte guardo una piazza o un palazzo delle nostre città e penso che è così da centinaia di anni. Nelle nostre città il passato è una fuga prospettica infinita, è una profondità, è temporalmente tridimensionale. Knoxville era bidimensionale.
Le città insomma si inseriscono perfettamente in una delle mie riflessioni ricorrenti: quella sul tempo. Contengono le sue tre dimensioni e le manifestano contemporaneamente: il passato è sempre presente, il presente è presente, il futuro sta nascendo.
Se il tempo è composto da tre dimensioni – o almeno così lo immaginiamo, per semplicità – è altrettanto vero che ha, come dire, dei modi di essere. I due principali sono: il tempo lineare e il tempo circolare.
Il primo è quello in cui pensiamo di vivere immersi, tanto da non porci il problema della sua validità: secondo questa modalità, siamo collocati su una dorsale evolutiva che ha un andamento, appunto, lineare e incrementale. Per questo misuriamo il progresso in termini di accumulo. In fondo una funzione lineare è positiva solo se i valori che esprime in funzione del tempo sono crescenti, tipo: più capitale, più case, più cose, più abitanti.
I valori negativi sono un’espressione di fattori regressivi lungo la linea evolutiva (il modello lineare è presto messo in crisi, dato che l’andamento può esserlo – lineare – ma non necessariamente la curva, che può flettere, esprimendo quindi valori relativi negativi, come le recessioni, le contrazioni demografiche, le guerre ecc.). Esiste però una fiducia quasi acritica nel suo andamento progressivo e lineare. E soprattutto una solida convinzione che il genere umano sia in costante evoluzione. Magari non condivisa da tutti, ma non sottilizziamo.
Non critico questa visione, alla quale poi aderisco anche io, in parte per inerzia, in parte perché è abbastanza vera.
C’è però un’altra modalità, ed è quella del tempo circolare. C’è una differenza sostanziale non solo nel loro svolgimento (il tempo lineare non ha pausa, non si ripete mai uguale; quello circolare è iterativo, finisce e ricomincia in continuazione): è la fine.
Il primo non ha fine, o la colloca in un punto indefinito, all’infinito. In quanto modalità progressiva e lineare, tende al miglioramento continuo e quindi, paradossalmente, il raggiungimento della perfezione coinciderebbe anche con la sua fine. Qualora fosse raggiunto, verrebbe meno la sua natura lineare, poiché avrebbe conquistato il fine, cioè la perfezione, oltre la quale qualsiasi miglioramento non avrebbe senso.
Il secondo è determinato dalla ripetizione e dall’alternarsi di vita e morte, di inizio e di fine. Il tempo circolare non inizia e non finisce ma si ripete. È quello delle stagioni, è quello della rivoluzione terrestre attorno al sole.
Nel tempo circolare la vita è una componente essenziale, necessaria: non potrebbero innescarsi azione e movimento senza di essa. Eppure anche la morte lo è, poiché la fine è solo l’attimo che precede un nuovo inizio. Non c’è soluzione di continuità fra inizio e fine nel tempo circolare: ogni attimo è sia un inizio che una fine.
Il fatto che le città siano gli organismi più complessi mai creati dall’umanità non dovrebbe però far pensare che siano anche i più intelligenti. O meglio: lo sono rispetto all’intelligenza umana, ma quella – come nota con grande efficacia James Bridle in Modi di essere – è solo una intelligenza. Ve ne sono molte di più, che noi umani derubrichiamo a inferiori, mentre sono solo diverse. Le piante hanno un’intelligenza, gli animali ne hanno un’altra, anche le pietre, a modo loro, hanno un’intelligenza.
Se viviamo immersi in un tempo lineare nelle città, esiste un altro ambito in cui possiamo sperimentare il tempo circolare, ed è quello non mediato dall’intelligenza umana. È sottoposto a un altro tipo di intelligenza, forse una pan-intelligenza (quella di tutte le cose, e delle loro connessioni, governate da leggi non razionali o che non sono riducibili alla razionalità umana): è l’ambito della natura.
C’è infatti una differenza sostanziale fra il tempo delle città e quello della natura. Come dicevamo, il primo è lineare, il secondo è circolare.
La città ci mette costantemente sotto gli occhi il tempo e il suo svolgimento: il passato è sempre visibile (ed è sopravvivenza, preesistenza ma anche come degrado, obsolescenza, morte); nel presente viviamo e infine progettiamo il futuro.
La natura invece è un continuo presente, oppure vive in un tempo che non ha né passato né un futuro definito o definibile: è, e basta. Infatti è circolare e non necessariamente progressivo. Si obietterà a questo punto che pure il tempo circolare ha elementi di crescita: in fondo gli alberi crescono e invecchiano ma poi muoiono, e morendo vengono riassorbiti nel ciclo vitale e cambiano forma.
La natura è sostenibile in sé, o di certo è in grado di esserlo in modo da mantenere il sistema in equilibrio. Un sistema evolutivo lineare come quello delle città, è facile capire, ha più difficoltà a essere anche sostenibile.
Ma non volevo addentrarmi oltre nell’argomento, quanto osservare che i due tempi comportano reazioni diverse nell’osservatore/cittadino:
Vivere in un ambito che ci pone in costante relazione con il tempo dà delle coordinate ma è anche sfiancante: non si può mai dimenticare che esiste un passato, specie se si vive in Europa. Il confronto con ciò che era e la proiezione verso ciò che sarà (o potrebbe essere) è costante e ineludibile.
Inoltre, la presenza costante del passato (l’essere presente del passato, per usare un gioco di parole) è una misura sia del progresso che del regresso, e pone continuamente nella condizione di misurarsi con quanto o chi è venuto prima. Cosa ha creato, cosa ha distrutto, cosa ha lasciato.
Il tempo lineare pone di fronte alla possibilità costante del progresso ma anche del fallimento. Quello circolare è una dimensione di sole possibilità, dato che si rinnova, a ogni giro.
Infine: una città e la sua immagine possono essere costruite o distrutte ma non possono mai essere ricostruite uguali a se stesse, quindi pone di fronte a una fine definitiva, che non ha appello.
Si dirà che anche una foresta può essere distrutta ed è vero, ma può anche essere rigenerata e rinascere, e inoltre la sua possibile fine è parte del processo circolare che la governa. Il tempo lineare invece non ammette interruzioni o fini, quindi non contempla la morte se non come accidente inevitabile, che di certo non interrompe il processo evolutivo.
La città ricorda sempre che esiste un passato che, esistendo, è costantemente un presente. La natura invece concede sempre – circolarmente – la possibilità, o un’altra possibilità, almeno.
Perché continuavo a ripensare a Knoxville? Perché mi chiesi dove erano finiti i suoi abitanti? 190.000 persone dovevano pure essere da qualche parte, o no?
Dopo qualche anno credo che mi avesse stupito quanto l’avessi trovata diversa da una città europea – e fin qui niente di sconvolgente: in fondo non era una città europea – e soprattutto come negava il tempo lineare. Era un tempo sospeso, quello. Sembrava un set cinematografico abbandonato o un luogo che era stato collocato fuori dalla linea del tempo. Non c’erano più esseri umani quindi non avrebbe progredito più. Forse stava per essere sopraffatta dal tempo circolare e presto la natura se ne sarebbe riappropriata. Non credo, o almeno non ho ricevuto notizia che Knoxville sia scomparsa dall’atlante.
Era qualcosa in mezzo: non si trovava né nel tempo circolare, né in quello lineare. Era un errore di programmazione, un glitch, ed essendolo rivelava una verità: il tempo è una chiave di lettura della realtà. Se non esiste il tempo o se è sospeso, ogni riferimento viene meno e manca un elemento di comprensione del reale.
Allora ho capito che il tempo è sia la dimensione in cui esistiamo, sia la lente attraverso cui diamo un senso all’esistenza. Che sia circolare o lineare, progressivo o regressivo. Il tempo ci colloca nella realtà e le dà un senso, o almeno una plausibile lettura.
C’era un bellissimo sole a Knoxville quel giorno, e la Terra gli girava attorno. Ha continuato a farlo e continuerà, per qualche miliardo di anni ancora.
