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Oltre

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Quando ero alle elementari mio nonno mi raccontò di una profezia di Nostradamus. Non avevo idea di chi fosse costui ma il fatto che fosse collocato storicamente in un’età remota gli doveva dare ai miei occhi una credibilità suprema. Mi avevano insegnato che i vecchi erano saggi, i nonni lo erano assai, quindi figurati questo Nostradamus: sarà stato paragonabile a 100 nonni sommati. Una potenza di saggezza.

Non ricordo bene cosa pensai di lui o come me lo immaginai – sicuramente un Albus Silente quando Albus Silente letterariamente non esisteva ancora – comunque uno che la sapeva, eccome.

La profezia che mio nonno mi trasferì con la leggerezza di una innocua chiacchiera da bar era che il saggio Nostradamus aveva previsto che il mondo sarebbe finito nel 1999.

Non la presi benissimo. Iniziai a calcolare quanti anni mi restavano e guardai con sufficienza e un po’ di odio il mio ignaro nonno, che di certo s’era scordato la profezia 2 minuti dopo avermela detta e soprattutto non immaginava che bomba nucleare avesse scaricato e fatto detonare nella mia giovane e plasticissima mente.

Al tempo si stava formando – lei, la mente – e quindi fece quello che le riusciva meglio: immaginò svariati scenari, uno più catastrofico dell’altro. Tutti erano uniti da un tratto comune: nel 1999 tutto sarebbe finito.

La parte retrospettivamente più divertente di quel periodo fu però un’altra. Non dormii per svariati giorni – probabilmente uno solo, ma nella memoria mi sembrano 1999 giorni – e soprattutto, ebbro di privazione di riposo e di accumulo di preoccupazioni, raccontavo a tutti questa cosa. Nella maniera peggiore. Quando vedevo i compagni di scuola divertirsi a ricreazione li fissavo e, una volta che si erano accorti di me e mi guardavano come a dire “Embè? Che c’hai”?” io sentenziavo ieratico “Divertitevi pure, tanto moriremo tutti”. Il fatto che mi guardassero poi con la più totale indifferenza non mi insospettì affatto. Solo io capivo, solo io sapevo. Poveri ignoranti: loro non riuscivano a capire.

Non posso dire di aver avuto torto – in effetti succederà a tutti prima o poi di morire- ma era sulle tempistiche che tendevo a essere troppo preciso. Del resto lo diceva Nostradamus, uno saggissimo.

Non ricordo quanto durò questa mia personalissima e terrificante allucinazione: ne percepisco una durata di qualche mese ma più probabilmente in qualche giorno si risolse. Dopo un approfondimento in merito (chiesi a mio nonno dove l’avesse letto e lui, sforzandosi a cercare di capire di cosa stessi parlando, tanto gli doveva parere importante, mi indicò un qualche settimanale di grande diffusione e piccolissima credibilità) decretai che questo Nostradamus era un ciarlatano, anche considerando le altre previsioni che aveva fatto, risoltesi in un nulla di fatto. Che delusione amico mago: i biscotti della fortuna che ti davano nei primi ristoranti cinesi che aprivano in quei tempi erano più attendibili. E almeno non prefiguravano queste sfighe cosmiche che a te sembravano piacere tantissimo.

Mi scordai di Nostradamus, come era giusto fosse.

Ci ho ripensato in questi giorni perché mi sono ritrovato a pensare al senso di quello che ci affanniamo a fare rispetto al Grande Schema delle Cose. Mi piace pensare in grande, non ci posso fare molto. Ma il mio pensare in grande non mi vede mai come protagonista, altrimenti ora sarei miliardario o il più grande frustrato del mondo (voglio vincere anche nel campionato della frustrazione, mio dio) e invece sono ormai un cinquantenne incomprensibilmente sempre più ottimista. E lo dico a discapito di tutto ciò che accade e anche personalmente, nel senso che in 50 anni non ho fatto i soldi (un criterio di misura, almeno per la nostra società, del valore individuale) né ho fatto alcunché di rilevante per il mondo. Mi dibatto insomma sempre fra una certa tendenza a valutare il già citato Grande Schema delle cose, elevandomi sopra la contingenza, e il constatare che non ho poi fatto molto. Sospetto che uno psicologo ci vedrebbe gli estremi per un mini culto della personalità che tende sempre a proiettare su scenari globali o interstellari la propria influenza. Poi c’è la realtà che mi dice che sono marginale per non dire ininfluente. E il fatto di essere in buona compagnia non mi sazia, non fosse mai. Mi fa invece intraprendere altre strade, che sono appunto quelle che voglio descrivere ora: cioè il non capire il senso di tutto l’affanno di alcune persone nel fare e pianificare e progettare.

Il Martino terrorizzato da Nostradamus fa ancora capolino e dice “Che senso ha tutto ciò? Tanto moriremo tutti”. La differenza è che oggi ho una prospettiva diversa, e non mi meraviglia: almeno in quello son cambiato e di certo il mio Io di più di 40 anni fa non aveva idea che potesse esserci dell’altro oltre questa vita qui, fatta di scuola, pomeriggi in bicicletta e panini alla Nutella alle 4 del pomeriggio.

Questi ragionamenti sono riaffiorati negli ultimi anni, soprattutto da quando medito, anche se i più maligni immagino possano pensare che sia accaduto anche quando ho constatato consciamente o meno di aver abbondantemente superato la metà statistica della mia vita. Può essere, non l’escludo. Può anche essere che la meditazione sia arrivata al momento giusto, cioè quando potevo accoglierla e capirla.

Per chi non medita, un effetto che se ne trae è che la propria personalità, il proprio Io, si disintegra sempre di più. Non giudicare ciò che ti accade e le tue reazioni porta a non giudicare molte altre cose, relativizzando la propria individualità. Siamo pulviscolo nell’universo e la nostra importanza è tutta immaginata. Qualora fosse poi tale da lasciare un qualche segno nella Storia (non è il mio caso, almeno fin qui e dubito più oltre) questo è destinato a essere dimenticato.

Possiamo avere qualche rilevanza in una frazione temporale totalmente irrilevante nel tempo cosmico, e poi essere dimenticati. Perché allora affannarsi tanto?

Credo risponda a una domanda esistenziale, cioè la più semplice e naturale: cosa ci facciamo qui? Che senso ha tutto ciò?

La risposta “Fare qualcosa di grandioso” è plausibile e risolutiva: può essere un modo per dare un senso alla vita. Ma non mi convince, perché, appunto, fra 200 anni nessuno se ne ricorderà. Ci vuole qualcosa di ancora più grandioso ma se non sei Thanos è improbabile che ti ricorderanno nemmeno per quanto malvagio sei stato.

Quindi mi sono chiesto se essere ricordati sia poi il problema.

Meditando mi sono risposto che, no, è più interessante ritornare alla propria natura cosmica ed esplorare le dimensioni interiori, sperando che conservino un ricordo della nostra provenienza, cioè quella di stelle e carbonio e tutti quei discorsi lì.

In questo meditabondo frangente è pure arrivato Marco Aurelio, sotto forma di “Colloqui con sé stesso” un libro che, nonostante i 2000 anni d’età, mi ha parlato come fosse perfettamente contemporaneo. Perché lo è, non avendo un’età definita. Parla infatti di pensieri infiniti, quindi nemmeno lunghi. Parla della labilità della memoria, dell’inganno della gloria e ha un afflato spirituale che lo eleva ben al di sopra non solo del suo tempo ma di qualsiasi tempo. Immagino che, se se ne conserverà memoria, anche fra 20.000 anni qualcuno lo troverà incredibilmente contemporaneo.

Allora mi sono detto che Marco Aurelio mi pareva e mi pare ben più eloquente e convincente di molti miei contemporanei. Non so ancora dire bene perché ma sospetto che si tratti della scala temporale che ha scelto, cioè quella dell’eternità. Lui ha parlato a un’umanità oltre la Storia, cioè oltre il flusso degli eventi. Oltre l’orizzonte degli eventi, anzi, che è una definizione astronomica che non c’entra ma che mi piace tanto da rubarla: Marco Aurelio non sapeva cosa fosse l’orizzonte degli eventi ma è andato oltre e ha sconfitto il tempo.

Quindi, assumendo che lui possa essere un modello (a me sta benissimo), il senso della sua esistenza è stato quello di superare il tempo, parlando di eternità. Come? Parlando di spiritualità più che di questioni interessanti per l’impero allora, ma la cui memoria si sarebbe persa in pochi secoli.

Porsi sulla dimensione spirituale eleva l’animo oltre il piano storico e lo rende immortale. A 7-8 anni mi scontrai per la prima volta con l’idea della mia mortalità e finitezza e in verità – scopro ora – quello che mi interessava era come superarla in altri modi. Al tempo però non sapevo come perché non conoscevo alcuna dimensione spirituale.

Il problema del corpo è quello della sua finitezza, cioè della sua sudditanza al dominio del tempo. Il senso della vita allora può essere quello di superare questa contingenza, non concentrandosi sul proprio corpo ma curando quello che Marco Aurelio chiamava il demone. Che non aveva niente di demoniaco, ma che era una specie di guida interiore, di bussola.

Mi viene in conclusione da pensare che ci avvertisse – e continui a farlo – che possediamo le istruzioni per la navigazione cosmica ma dobbiamo trovarle e usarle. Se siamo polvere di stelle il viaggio forse può essere quello di ritorno al cosmo, e questa essere una parentesi corporea interessante e istruttiva ma pur sempre una parentesi. Finita e circoscritta.

Quello che mi gettava nello sconforto della profezia di Nostradamus era la finitezza del corpo, quello che mi rende irrazionalmente ottimista oggi è constatare che non tutto si risolve, appunto, nel corpo. Tutto è oltre, è più in là, e fra le stelle. Pur essendo anche dentro di noi.

Chiudo gli occhi e medito. Vedo cose che non hanno forma o senso: sono luci, sono piani colorati, sono forse la forma delle emozioni o forse sono parole da interpretare, scritte in una lingua che non posso ancora capire. Sono le istruzioni, suppongo: quelle davvero importanti.

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