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Ho questo tavolino al centro del soggiorno. È basso, è quello che si definisce un coffee table, e, come tale, è ricolmo di libri, o di coffee table books, dovrei dire.

Lo cito perché è uno dei pochi elementi variabili della mia casa.

È fatto a strati: ci sono libri che sono come fondamenta e non cambiano mai e stanno sotto, ne sono il primo strato. Da queste si ergono muri e torri mozze o più svettanti di altri libri. Queste invece cambiano. Vengono spostate e riconfigurate a seconda dell’esigenza (c’è da appoggiare qualcosa che non sia un libro – una tazza, un bicchiere) e si riconfigurano incessantemente in costruzioni più o meno alte, più o meno in equilibrio instabile.

Non credo di avere il governo di queste architetture: a volte ho l’impressione che si riposizionino da sé, come fossero dotate di un’energia cinetica propria. Dovrei fotografare quel tavolino, per scoprire se vive di vita propria mentre non sono in casa. Sono sicuro che è così.

Alle spalle del tavolino c’è la mia biblioteca. È il luogo dell’immutabilità. Ogni tanto vi aggiungo qualche libro ma la sua configurazione è stata decisa anni fa, il suo ordine è tale per decreto. Per certi versi è la metafora di quelle cose che nella vita fai sempre così, che non hai voglia di cambiare. Però è una biblioteca, è anche la forma palpabile della tassonomia, ha il suo ordine e il suo senso.

Ci sono cose che è meglio non cambiare, che stanno bene così. Mi lascio qualcosa di immutabile a cui aggrapparmi, mentre attorno tutto il resto cambia.

Questi due luoghi – perché si tratta di accumulatori energetici, che quindi creano attorno a sé un’aura ben percepibile – sono simbolici di due modalità secondo cui una casa pulsa: quella della variazione e quella della immutabilità.

Ci sono angoli e anfratti, piani e spigoli di una casa la cui unica variazione è misurabile dalla polvere che vi si posa. Poi ve ne sono altri che mutano in continuazione. Sono i due estremi che generano l’energia di una casa, come i poli opposti di un magnete.

La casa è anche la metafora del porto sicuro, è il luogo a cui tornare, la protezione. È fatta di materia che non deve mutare, a cui chiediamo di non mutare. È un archetipo, è fatta di elementi verticali e di un tetto sopra la testa, le decorazioni floreali dei capitelli corinzi ricordano appunto le foglie dei tronchi con cui nell’antichità si costruiva la struttura di una casa, o almeno ricordo qualcosa di simile. Sopra ci sta il tetto e questo insieme protegge.

Se pensiamo a una scala millenaria, se ritorniamo al senso della casa di 1000 o 3000 anni fa, e se poi pensiamo a quanto poco il suo significato pratico ma soprattutto simbolico sia cambiato nel corso della storia (protezione, famiglia, comunità ecc.), è più semplice valutare quanto sia invece stato modificato negli ultimi decenni.

Lo riassumerei (e non parlo di diritto alla casa, né di accesso ai capitali per averla o altro) dicendo che abbiamo lasciato sempre più spesso entrare nella nostra casa elementi destabilizzatori estranei. I giornali, i cellulari, il mondo fuori.

Una volta (secoli e millenni fa, ma ciò che conta è che così è stato e rimasto per secoli e millenni), dentro e fuori erano concetti separati e indicavano stati mentali precisi.

Oggi esistono sovrapposizioni e infiltrazioni fra i due sistemi: l’esterno entra all’interno e non lo fa fisicamente ma, aspetto ancora più subdolo, lo fa mentalmente. Dentro casa portiamo i pensieri di fuori, le aggressioni della realtà. I denti dell’esterno affondano nella carne dell’interno.

Non che una volta non succedesse la stessa cosa: le notizie – per quanto più lentamente – circolavano sempre, eppure oggi si è sempre più aggrediti o, simmetricamente, è più difficile proteggersi dal loro manifestarsi.

L’esterno vuole entrare nell’interno.

Proteggere se stessi è sempre più una questione di protezione della propria mente: di dieta dell’informazione, di scelta accurata di cosa leggere ascoltare fare, di dominio sul proprio tempo. Perché l’esterno vuole l’attenzione e quindi vuole il tempo. Si alimenta col tempo.

Nelle ultime settimane le notizie dall’esterno sono sempre più allarmanti. Il livello, a memoria mia, è allarmante da 20 anni, quindi non so neanche a che livello siamo, forse blu livido o rosso inferno. Non importa molto.

Allo stesso tempo in questo periodo sto meditando meglio che in altri momenti. Si dirà “E quindi?”, e direi che non so se abbia una spiegazione, di certo ce l’ha per me, nel senso che è come aver trovato un interruttore che spingo e – quando voglio – crea il silenzio e tiene fuori tutto.

Ho una casa dentro me. Sono una casa.

Non so quanto durerà ma intanto ne sono confortato. C’è chi ha Dio (che è – avanzo questa ipotesi – una forma di dipendenza, nel senso che fa dipendere la propria sanità mentale da una creatura invisibile che vive nel cielo, come diceva il buon George Carlin) e c’è chi fa con le sue forze. Io faccio da me. È molto più rischioso perché sono casa, o mi illudo di esserlo. Un giorno potrei non averne più la forza ma almeno è qualcosa dentro di me.

Quando medito vado dentro me stesso. Ci sono meditazioni che si basano sulla ripetizione delle formula “Torno a casa, torno in me stesso”, ne parlava il maestro vietnamita di meditazione Thich Nhat Hanh. Magari le parole non erano queste ma il concetto sì, non mi sbaglio di molto. Di certo non diceva “Torno a casa e odio tutto e tutti”, per capirci.

Insomma: non è un caso che parlasse di casa, no? E la casa era in noi.

Ho scelto questi due elementi – la biblioteca e i libri sul tavolino – per parlare degli opposti concetti dell’immutabile e del mutabile, dell’esterno e dell’interno. Sono tenuti assieme dall’appartenere alla casa (non esisterebbe un esterno se non esistesse l’interno della casa, e viceversa).

Sapere di essere una casa, per chiudere il ragionamento, significa avere la consapevolezza che la sua protezione e il suo calore sono in noi. Noi siamo vascelli (ancora: case, ma galleggianti) o vettori che si spostano nell’esterno. Possiamo decidere cosa portare a bordo, possiamo aprire o chiudere porte e finestre, possiamo aprire o chiudere occhi e orecchie.

Sentirsi casa, sentirsi una casa: è come avere dentro di sé il centro gravitazionale, e stare tutto attorno a questo, immutabile. Non è male.

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