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Bianco

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Un cerchio bianco si può visivamente descrivere per contrasto (con un altro colore) o delimitandolo (tracciandone il contorno). Si tratterebbe poi, appunto, di “un cerchio bianco”, non del bianco. 

Il bianco mi è apparso molteplici volte in un breve lasso di tempo, ultimamente. Mi chiedo se il bianco mi stia dicendo qualcosa.

Innanzitutto, il bianco è considerato – a torto – l’assenza di colore. In verità è il nero a esserlo ma il rapporto fra bianco e nero gode di questa particolare condizione: che entrambi sono considerati assenza, vuoto, mentre se dovessi associarvi due sostantivi direi piuttosto che è il nero a essere il vuoto e il nulla e il bianco a essere il tutto e il pieno. 

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Quando si hanno esperienze di quasi morte – dicono, o dice almeno chi ha raggiunto quella soglia, senza varcarla – si vede una abbacinante luce bianca. Si va – per quel che si diceva poco fa – verso il tutto. L’esperienza pare automatica: non si pensa “Devo essere morto, quindi ora vedrò una luce bianca” ma piuttosto il contrario: “Vedo questa accecante luce bianca, quindi devo essere morto o stare per”. 

Questa visione è condivisa da molti se non tutti quelli che hanno vissuto un’esperienza di pre-morte o quasi-morte: una porta, un varco, una fonte di luce potentissima e bianca. Se appare come tale a tante persone, fatto salvo che possa essere un’immagine che si forma di default nella mente quando il sistema operativo cerebrale sta per essere resettato, riavviato o spento per l’eternità (una specie di schermata blu, ma bianca e relativa al codice della nostra mente) , ci deve essere un terreno comune: evidentemente il colore della morte è il bianco e non il nero. All’assenza di colore e di luce associamo la cupezza del nulla, cioè il nero. Invece è il bianco il colore – cioè la sublimazione ultima del colore – che ci conduce in un’altra dimensione. O così dicono o ci fanno sospettare quelli che a quel limitare si sono avvicinati. 

Quindi, parrebbe di capire, giungere su quella soglia fra vita e morte significa avvicinare quello che normalmente viene confuso, e cioè il vuoto con il pieno, il nulla con il tutto. 

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In Giappone e in Cina il bianco è il colore della morte. In occidente è l’esatto contrario. Se il nero è il nulla e il bianco il tutto, siamo di fronte a due concezioni diametralmente opposte del trapasso: tutto o niente, pieno e vuoto. 

È insomma come se l’ultimo istante cosciente fosse percepito diversamente a seconda della cultura da cui genera: se è occidentale è il varco verso l’ignoto e il nulla, il contrario se è orientale. Una cultura vede – almeno cromaticamente – nell’altra dimensione un universo di possibilità mentre l’altra vi vede la fine di tutto. Ho il sospetto che si tratti ancora una volta del rapporto che abbiamo con il tempo: se finisce (quello terreno) finisce tutto, pensa la cultura occidentale, mentre l’orientale pensa che il tutto inizi proprio dalla fine.

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Il bianco ha un valore semantico molto particolare nelle manifestazioni di questi giorni di dissenso al governo cinese: per non essere accusati di reggere cartelli e messaggi sediziosi, i manifestanti contro il governo reggono solo cartelli bianchi: non contengono alcun messaggio pur contenendo tutto. 

L’assenza di segni e di tracce della mente mette in crisi la politica repressiva: come condannare chi non dice niente? Invece quel bianco contiene il tutto: la critica, il giudizio, la protesta. Questa è un’altra ricorrenza del bianco. L’ultima è la seguente. 

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Ho sentito parlare di un nuovo film tratto da White Noise di Don DeLillo. Ricordo di averlo letto tanti anni fa, non ricordo nemmeno di cosa parla né il nome di un solo personaggio. Ricordo però che mi insegnò il significato quasi sinestetico di “rumore bianco”: un ronzio, un sottofondo sonoro incoerente. Il rumore bianco è infatti quello che il cervello percepisce come perturbazione sonora: un phon o una lavatrice in funzione, il reattore di un jet. Apparati sonori senza struttura e quindi capaci di far vagare la mente senza darle il compito di seguire una melodia.

Ricordo però una frase pronunciata da uno dei suoi protagonisti: era semplice, spietata e non ammetteva repliche, diceva “Ogni cosa era al suo posto” (credo che i Radiohead l’abbiano fedelmente citata in “Everything in Its Right Place”). Non che tutto fosse in ordine, quanto piuttosto che l’ordine delle cose non ammettesse altra configurazione. Una sensazione di soffocamento, alla fine.

Si nota niente di strano in questo nome? “Rumore bianco”: un ambiente sonoro associato a un colore, ammesso che il bianco sia un colore (è tutti i colori, in effetti). Come può un colore descrivere con precisione un insieme di rumori? Non ha importanza, almeno non ora: è interessante però che per definirlo sia stato scelto un colore.

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Il bianco è, infine, il colore della purezza, ma la purezza è anche lo stadio precedente alla corruzione: puro è ciò che è originale poiché non ancora corrotto. Il varco verso la morte potrebbe essere proprio questo: un ritorno alla purezza, il termine di un percorso ciclico iniziato con la luce da cui il neonato è investito all’uscita dal grembo materno e finito con un’altra luce. Forse un ritorno a quei luoghi o l’accesso ad altri.

“Everything in Its Right Place” potrebbe essere “Everything is white” e forse direbbe la stessa cosa.

ll bianco è ritornato insistentemente in questi giorni, in maniera casuale o in eventi scollegati e distanti fra di loro. O magari c’ho prestato più attenzione che negli altri giorni e statisticamente invece non c’è niente di cambiato nei giorni. Il bianco e il nero in effetti ci sono sempre stati: mi hanno solo parlato con voci diverse, fatte di fine o possibilità, di casi e casualità.

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