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Visione

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L’uomo è l’unico animale che ha il senso del futuro, o che vi dedica un’attenzione costante. Poter manipolare, almeno mentalmente, la proiezione del sé in un tempo che deve venire comporta il tentativo di dargli una forma. O meglio: al riguardo c’è chi ha un atteggiamento attivo e chi uno passivo: i primi pensano di poter decidere che forma avrà il loro futuro – o almeno pensano di conoscere la direzione che li condurrà a realizzarlo – mentre i secondi prendono la forma che ha il futuro, indipendentemente dalla loro volontà. Ci si adattano, insomma.

Quelli che trovo interessanti sono i primi, perché hanno una qualità particolare dell’essere umano e cioè la capacità di avere una visione.

La visione è la capacità di proiettare un futuro possibile, o anche più futuri possibili, organizzati in scenari.

Ho letto che chi pensa di soffrire della sindrome dell’impostore in realtà non lo è. Il fatto di porsi il problema di esserlo indica che non si è impostori perché l’impostore non se lo pone, o il fatto di esserlo non è un problema: sa di esserlo e vuole esserlo. Allo stesso modo il fatto di non avere una visione o di aver difficoltà a immaginare di saperne immaginare una, cosa mi rende? Uno che ha una visione o che potenzialmente sa crearne una o più? Forse. 

Me lo sono domandato in questi giorni, me lo domando spesso a dire la verità. Forse non ho una visione (solo Napoleone o Churchill ce l’avevano, e altri personaggi di tal statura – scusami Napoleone, non volevo essere ironico). Forse quelli destinati ad averne una, avendone la capacità, sono pochi in un secolo, e li altri amano raccontarselo o pensarlo. 

La visione significa avere uno sguardo limpido sul futuro? Significa riuscire a vederlo? Non credo, o non necessariamente. Significa pensare di poterlo plasmare e adoprare le forze per realizzarlo. Significa credere e sapere che la forma del futuro è la conseguenza delle azioni nel presente, non ha niente di messianico, imponderabile o ultraterreno. L’uomo antico poteva pensarlo, l’uomo moderno mi auguro non lo pensi più.

In verità non ho un pensiero molto coerente da offrire oggi, ho più che altro dei frammenti di pensiero che mi trovo in tasca, raccolti come foto o illuminati da una piccola torcia e non dal sole.

Ho sentito una bella cosa detta dal jazzista Branford Marsalis. Parlava dei brani di John Coltrane che piacciono di più al pubblico e di quelli che piacciono di più ai jazzisti. “Al pubblico piace My Favourite Things, se suoni Giant Steps il pubblico non capisce o vuole che suoni My Favourite Things. I jazzisti invece vogliono suonare Giant Steps. Giant Steps non è musica: è matematica”.

Ci sono giorni o periodi in cui raccogli questi sassolini e li metti in tasca, non sapendo bene se appartengono a un disegno unitario o sono cose scollegate tra di loro che hanno l’unico tratto comune di avere attratto la mia attenzione. Eppure se mi hanno parlato è perché ho sentito la loro voce. Non avrei potuto notarle altrimenti. Devono avere un collegamento fra di loro solo che la realtà (e la vita) non seguono una sceneggiatura, non hanno una logica.

Forse ciò che attrae la nostra attenzione ci parla di noi, e allora lo notiamo e lo annotiamo, raccogliendolo nella memoria. Non ne vediamo il senso, per ora.

La visione deve essere quella capacità particolare di mettere insieme i frammenti per vedere a cosa puntano, quale direzione indicano.

Che Giant Steps sia matematica – che è un modo per dire che ha una costruzione così raffinata e complessa da parlare al cervello più che al ventre o al cuore (a volte il cuore è nel ventre, quando è stimolato dalle emozioni più piatte ma potenti) – mi è sempre stato chiaro. Capisco la piacevolezza compiaciuta di My Favourite Things ma la mente gode di più ascoltando Giant Steps o una partita di Bach perché sono musiche che hanno una vibrazione acustica e che creano anche uno spazio sonoro. E stimolano la mente. 

Quando Marsalis distingue fra musica e matematica non declassa la musica ed eleva la matematica. È ovvio che Giant Steps è prima di tutto musica. Quello che vuole dire è che ha il fascino abbagliante di un teorema complesso e difficile da risolvere ma di cui non si può ignorare la bellezza. La mente educata da un orecchio sapiente la riconosce e se ne nutre.

Se la visione è la capacità di immaginare e vedere un futuro, ordinando le forze in modo da dirigersi nella sua direzione, il raccogliere frammenti serve a trovare una strada. Mi preoccupo di più di non sapere ascoltare la realtà – di non sentire la sua voce, di non cogliere l’ombra di un albero su un muro, di non udire le note di Giant Steps – che di raccoglierla in piccoli brani incoerenti. Uniti in un disegno, puntano a qualcosa o illuminano la strada che vi conduce. Non si riesce a vedere esattamente dove porta ma ci si può incamminare, intanto.

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