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Sull’educazione

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Sull’educazione

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Giorni fa è morta la suora che fu mia insegnante alle elementari. Io non ho 20 anni quindi si può immaginare facilmente che non avesse 70 anni. Nessuno di quelli a cui ho chiesto sapeva bene quanti anni avesse, quindi si può dire che ha vissuto, ne aveva e non pochi. Ma il punto non è questo.

 

Ripensare a lei mi ha fatto considerare quanto siano cambiate l’educazione e l’istruzione in questi quasi 40 anni. Ma parto dall’inizio.

 

Lei aveva dei metodi educativi — come dire — un po’ spicci. Non parlo delle sue capacità divulgative che non ricordo nemmeno benissimo. Direi che erano buone se non ottime, mi pare di conoscere le basi della grammatica e della matematica quindi direi che il suo lavoro l’ha fatto bene.

Quelli che erano degni di nota erano i metodi punitivi che adottava per chi non dimostrava di applicarsi. Chi non capiva (e potevano ben esserci persone così, e non solo perché svogliate, magari perché proprio non ce la facevano) veniva ripreso e redarguito e il procedimento aveva anche delle manifestazioni fisiche. Niente di particolarmente violento ma insomma, diciamo che c’era contatto fisico.

Io non ne fui mai oggetto, salvo una volta che mi stavo stiracchiando e non mi ero accorto di averla alle spalle. Mi prese un orecchio e me l’accartocciò. Capii e non dissi niente. Beccato, punito. Muto.

 

Cosa mi insegnò questo metodo educativo? Sicuramente una disciplina da caserma in cui era accettato solo e unicamente rispettare le regole, applicarsi, essere inquadrati. Non sono sicurissimo che dei bambini dai 6 ai 10 anni siano pronti a ricevere una formazione del genere ma così andò.

 

Io uscii da questa scuola cattolica che parlavo come uno scaricatore di porto che diceva parolacce appena poteva e anche quando non avrebbe dovuto. Insomma, reagii, a modo mio. Però imparai anche a rispettare l’autorità. Facevo il ribelle ma rispettavo. Insomma, ribelle: qualcosa del genere.

Quello che mi stupì fu però l’affetto che quasi tutti conservammo per questa suora. Non saprei dire se si trattasse di una forma particolarmente subdola di sindrome di Stoccolma ma in molti ci affezionammo a lei. Forse lei era tanto amorevole quanto dura nel punirci. Forse quello era il modello e non ne conoscevamo altri e dopo quasi 40 anni non so ancora se fosse giusto o sbagliato.

 

Ognuno prende le cose che gli dà la vita e vede un po’ cosa farci. C’è chi ne esce a pezzi e chi si fa forza e usa le difficoltà per crescere. È la vita, no?

 

Dopo qualche tempo la trasferirono in Liguria e andammo pure a trovarla. Facevamo le medie e organizzarono un autobus e andammo da lei. Fu dolcissima e volle sapere tutto di noi. Era emersa solo la sua parte materna e delicata in quell’occasione, del resto non aveva motivo di comportarsi diversamente. “Non hai finito il panino che ti sei portato per pranzo! 50 avemaria!”. No, fu dolce e basta.

 

Ma dovevo parlare dei metodi educativi, giusto.

Oggi credo che i suoi metodi durerebbero una settimana scarsa. Poi si troverebbe i genitori di Paola o di Marco con i loro avvocati al seguito.
E sarebbe comprensibile perché la pedagogia nel frattempo ha capito e spiegato che ci sono altri mille modi per educare dei bambini, senza ricorrere alle punizioni, senza farti saltare il pranzo perché avevi parlato in mensa (mi capitò e da quel giorno mi rifiutai di mangiare a scuola).

Quel sistema educativo aveva però un aspetto buono e positivo ed era il rispetto che infondeva. Intendiamoci: il rispetto può assumere la forma del timor-panico (rispetti qualcuno perché ne hai paura) o quella più genuina del riconoscimento di uno status del docente. Questo atteggiamento si estendeva dallo studente ai suoi genitori. Che un genitore polemizzasse con una decisione della suora — che di per sé incuteva poi già un certo timore — era fuori discussione. Le sue scelte e i suoi voti dovevano essere accettati e basta.

 


Oggi le cose sono decisamente diverse. Una volta avveniva che l’autorità fosse quella dei genitori a casa e che questa si trasferisse poi a scuola durante il resto della giornata. Chi insegna o ha amici o parenti che insegnano sa che non questo non accade più.

Oggi l’autorità resta quasi sempre fra le mura domestiche e quando si trasferisce a scuola sono i ragazzi a detenerla. Come dice Umberto Galimberti, ora c’è un “sindacato dei genitori” che contesta le scelte del corpo docente che non gradisce e che difende sempre e comunque i figli. Col risultato di formare individui convinti di avere sempre ragione o convinti di poterla comunque ottenere e soprattutto insicuri perché iperprotetti.

 

Quando la mia suora dai modi spicci esercitava il suo potere educativo le gerarchie erano ben definite e forse anche il mondo era più ordinato. C’era chi ti spiegava le cose e la cui autorità era raramente messa in discussione e c’erano i genitori che esercitavano un’altra forma di autorità.

Non dico che il sistema fosse migliore, dico che era un sistema più ordinato in cui le cose te le dovevi meritare. Non te le procuravano i genitori ed eri solo tu il responsabile dei tuoi successi e insuccessi. Prima scolastici, poi esistenziali ed eventualmente professionali.

 

L’autorità necessita di un ricevente per esistere. Non esisterebbe autorità senza persone su cui esercitarla. Ma quando viene esercitata riconosce il soggetto su cui viene applicata. L’educazione espressa con quelle modalità era odiosa per molti versi (e, ripeto, non giustifico l’uso di maniere forti e posso solo pensare che le usi chi ha ricevuto educazioni altrettanto dure e anaffettive) ma esponeva le persone a una specie di simulazione della vita in ambiente protetto. Le cose da fare, gli obblighi, le cose odiose, le persone odiose, quelle adorabili, le cose da meritare, le cose che decidevi di tenere e quelle che lasciavi andare. Era un’educazione alla vita, a volte anche dura e spietata ma i cui frutti si sarebbero raccolti anni dopo.

 

Poteva anche piegarti e farti male ma prima o poi ci pensa la vita a farlo, quindi è meglio capire da subito che le regole sono queste e non sono nemmeno regole: è la vita stessa.


A questo punto ci vorrebbe un sociologo per spiegare cosa è successo in questi decenni. Perché la generazione che ha fondato una società del benessere è stata seguita da una generazione che ha ricevuto poco affetto perché quella che la precedeva era troppo occupata a lavorare e guadagnare. E si è sviluppata di conseguenza trasformando l’affetto per i figli in una forma eccessiva di protezione, quasi a compensare le scarse attenzioni ricevute. Una generazione che ha sostituito alla venerazione religiosa quella per la salute e per l’igiene, che ha elevato a sistema il timore per qualsiasi accidente potenziale o remoto, in un’epoca in cui i pericoli sono curiosamente più remoti che in altre.


Una società della paura che si difende, che ha timore del futuro o che ne ha anzi la più totale sfiducia. Una società che protegge i propri figli in maniera eccessiva, specie contro pericoli immaginari.

Una società che non ha più fiducia in sé stessa e che ha costruito la propria esistenza attorno a un’ansia permeante. Che protegge i propri figli in maniera eccessiva non perché ha timore, in verità, ma perché non si fida nemmeno di loro e allora è meglio pensare al posto loro. Difenderli dai loro stessi maestri e professori, diffidare di tutto e di tutti come sistema di pensiero.

 


Dopo le elementari andai alle medie, in una scuola pubblica. Ero anche bravo, l’educazione militare aveva dato i suoi frutti. Ero così bravo che ero mal sopportato da buona parte dei miei compagni. E non perché mi dessi delle arie e nemmeno perché fossi particolarmente bravo. Lo ero forse in quel contesto, cioè quello di una scuola media che raccoglieva persone provenienti da ambiti diversi da quelli a cui la vita fino a quel punto mi aveva abituato.
Non fu semplice e fu il primo contatto con la realtà reale. Ma la superai, credo anche grazie a una certa durezza che la “Suora Militare” mi aveva trasmesso.

 

Come sempre accade nella vita, non conta quello che ti succede ma conta come lo affronti. Credo, a distanza di qualche decennio, che l’implacabile suora mi abbia insegnato a reagire, a fare affidamento solo su di me e su poche persone fidate e soprattutto che la vita può tirarti dei colpi davvero devastanti. Li saprai incassare? Se hai iniziato da piccolo una qualche idea ce l’hai già.

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