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Niente

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Una frase che non dico mai è “Sono deluso”. La delusione è il risultato di un errore di giudizio (avere aspettative e meravigliarsi che la persona o la situazione verso le quali le si aveva non siano all’altezza) e non è un giudizio in sé. La persona che delude (o il prodotto che delude o il viaggio che delude) delude poiché si rivela di qualità o pasta inferiore a quella attesa, non perché non abbia in sé qualità. Non c’è niente di giusto o sbagliato in una persona (ci sono deviazioni dalla norma o dall’aspettativa) ma esistono solo scostamenti rispetto all’immagine che ci si è fatti di qualcuno o qualcosa. 

È l’immagine della persona o della cosa a deludere, non la persona o la cosa in sé.

Avere aspettative è un modo subdolo e autosabotatorio per rimanere delusi (il concetto e la sensazione della delusione esistono eccome), non averne limita l’entusiasmo ma anche il distacco dalle cose e dalle persone: le si nota ma non si è mai eccessivamente euforici né depressi al riguardo. L’equilibrio come regola di vita.

Misuriamo le persone e ne formuliamo un giudizio basandoci sulla proiezione che ne abbiamo e molto poco o affatto sulla sostanza delle persone. È l’idea che si ha delle persone che eventualmente può deludere o stupire, non le persone in sé. Le persone sono le persone e non sono responsabili dell’idea che si ha di loro. Vi sono persone abili nell’ingannare o confondere o nel dare una certa immagine di sé – è verissimo – ma ciò non toglie che la loro essenza resti comunque diversa dall’idea che ci si forma di loro, quindi la tesi resta comunque valida. 

***

Perché si innesca questo meccanismo psicologico? Perché insomma dalle persone ci si aspetta sempre qualcosa? Credo sia dovuto alla cultura cattolica che pone fra i suoi fondamenti un pensiero molto economico: per avere devi dare. È sacrosanto ma come molte altre più o meno subdole perversioni mentali della religione, ha un caveat: bisogna adorare per avere. Siccome si è nati con il peccato, bisogna adorare Dio per sperare nella sua clemenza e salvarsi. L’adorazione è motivata dalla natura divina (non si può non adorare Dio, chi altri o cosa altro si potrebbe o dovrebbe adorare se non Dio?) e ha come potenziale ricompensa il perdono. Nel frattempo va benissimo temerlo, è pur sempre una divinità – la Divinità – ed è giusto non perdere occasione per ricordare che vi sono livelli e strati sociali e divini e che l’uomo è collocato comunque sotto.

Se adoro quindi riceverò – pensa il credente (e questo ragionamento si insinua subdolo in tutta la cultura) – e se do attenzione e ripongo speranze in una persona questa restituità il sentimento in proporzione a quanto ho dato.

Dare per ricevere, adorare per essere salvati (e adorati, se capita) è un fondamento granitico del pensiero occidentale e ha moltissime e pericolose ramificazioni che giungono sino al senso di colpa. Del resto provengono proprio da quello: adora se vuoi liberarti dal peccato originale, se vuoi salvarti.

Gran parte dei rapporti sociali e umani sono basati su questi semplici meccanismi e le sembianze che queste deviazioni prendono – anche sembianze apparentemente innocue – sono poliformi e molto ben celate. Ma questo è argomento per altri discorsi di cui ne anticipo solo uno: oggi è comune pensiero che le condizioni economiche in cui si trovano le persone siano dovute necessariamente a quanto o meno si impegnano. Se qualcuno non riesce è perché non c’ha provato abbastanza. Sembra ragionevole, vero? Eppure a ben guardare sotto c’è sempre la colpa: se non ce la fai è perché hai la colpa di non averci provato abbastanza. Basta aggiungere una parola ed è molto più chiaro, specie da dove origini una conclusione che pare così limpida da non essere mai messa in discussione.

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